28 Agosto 2023
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Cambiare le parole (anche nell’informazione cattolica) per cambiare schema

Lo strumento primario, eppure così fragile, nel mestiere di giornalista è la parola. Che sia scritta o parlata è quella la forza e talvolta l’arma di questo mestiere.

Giacomo DOnofrio

Mestiere, si, perché siamo (o dovremmo essere) come gli artigiani, che selezionano le parole migliori “pescando” dalla ricchezza della nostra lingua, che ci consentirebbe davvero di dire molto di più è molto meglio di come molte volte facciamo.
Sarà, invece, la logica perversa (a mio giudizio) dell’all news che poco o nulla appartiene alla nostra cultura informativa, sarà che ormai si cerca quasi sempre l’effetto (titolo a efffetto, locandina a effetto, post a effetto, tweet a effetto), fatto sta che la più umiliata, la più sgualcita, la più bistrattata è sempre più spesso la parola.

Basta fare una rapida rassegna stampa e si noterà che tra le parole più (ab)usate oggi dai media c’è “choc”. Che sia cronaca nera, politica, sport… quanti choc subiamo in quest’epoca è davvero da Guinness…
E che dire della parola “giallo”? Tutto è giallo se serve ad alimentare quella cultura, un po’ pruriginosa, fatta di mezze verità, di retropensieri, dietrologie…
Intendiamoci: la colpa è dei giornalisti, certo, ma non del tutto. È colpa anche di una logica che si è imposta nell’informazione a rullo continuo, che per tenere desta qualche secondo in più l’attenzione dell’utente ha necessariamente bisogno di alzare il tiro, talvolta perfino di spararla grossa.

Il fatto è che nell’epoca dei social, dove tutto è disintermediato, la credibilità della nostra categoria cade a picco ogni volta che (e capita, ahimè, troppo spesso) rincorriamo i like e andiamo alla spasmodica ricerca dei numeri e basta. E allora un titolo ad effetto, anche quando è banalmente prevedibile (nella migliore delle ipotesi), se non volutamente esasperato, serve ad attrarre utenti. E che importa se sotto a quelle parole urlate inanelliamo una serie di commenti che vanno dal bonario sfottò, allo screditamento vero e proprio di un mestiere che, agli occhi dei più, oggi è privo di credibilità ed autorevolezza.

Un problema, quello dell’uso mellifluo delle parole, da cui non è esente l’informazione cattolica.
C’è un conformismo anche in questo settore del giornalismo che dovrebbe far riflettere. Quante volte, ad esempio, scimmiottiamo il linguaggio del Papa come se fosse un leader da usare alla bisogna? “Chiesa in uscita”, ad esempio, è diventata una di quelle formule buone per tanti contesti, ma dietro la quale non di rado si cela il nulla. O meglio: il nulla di novità ed un giudizio aprioristicamente negativo su ciò che “in uscita” (presunta) non è. È così anche il giornalismo cattolico alimenta quella banalità del linguaggio, che è un male del giornalismo odierno, ma che in questo caso qualche volta diventa perfino peccato: il peccato di clericalismo. Sì, perché anche scimmiottare il linguaggio del Papa come se fosse un leader è, dal punto di vista ecclesiale, una forma di clericalismo, che non fa bene al nostro settore, men che meno all’annuncio della Parola attraverso le nostre modeste parole.

Sarà possibile cambiare schema? Ho molti dubbi, soprattutto perché questo mestiere è sempre più squalificato da editori che investono sempre meno ma pretendono sempre di più. E perché il lavoro quotidiano di tanti colleghi assomiglia alla logica della pallina da flipper, per cui arrivi a sera e rischi di non ricordarti più da dove sei partito. Col risultato che, per fare prima e di più, si scivola inevitabilmente in una banalità del linguaggio, che racconta, si, ma di un lavoro che da mestiere artigiano è’ diventato sempre più professione in serie.