14 Agosto 2024
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Un giornalismo che sostiene cause giuste e con l’obiettività, come la mettiamo?

Un altro interessante articolo tratto dalla nostra rivista DESK, che pootete scaricare integralmente qui.

Vittorio Sammarco

VITTORIO SAMMARCO (2024)

La parola advocacy, specie se associata al giornalismo, a volte suscita perplessità. Intanto perché un certo uso esagerato degli inglesismi ha generato idiosincrasia per coloro che, affezionati all’etimo

italo-latino, ritengono che la lingua inglese, per un abuso un po’ sconsiderato, sia solo un vezzo snobistico. E poi, peggio, perché il termine “patrocinio” (alla lettera) è riconducibile facilmente alla tutela giuridica, da aule di tribunale che poco hanno a che fare con il giornalismo, richiamato all’obiettività o quantomeno all’imparzialità, ed è tutt’altro che “prendere parte”, difendere, schierarsi, insomma. Una specie di “fumo negli occhi”, per usare altra metafora abusata.

E quindi il giornalismo di advocacy è costretto… a difendersi, appunto: a legittimare la sua dignità ogni volta che viene richiamato, a spiegarne le radici, e in molti casi a mostrare come si possa chiamare giornalismo (e quindi invocarne i pilastri) se il criterio non è per nulla essere disinteressato e imparziale di fronte ai fatti, ma, anzi, valutarli per quel che sono e (non nonostante ciò, ma proprio in quanto ciò è avvenuto o avviene), sapere come giudicarli e da che parte leggerli e valutarli.

IL GIORNALISMO DI ADVOCACY

Ma di cosa parliamo quando si parla di “giornalismo di advocacy”?

Una descrizione esatta si trova nel sito tomorrow.bio/it1, intrigante, originale e utile per farsi un’idea dettagliata su come mentre «l’obiettività mira a presentare una prospettiva neutrale, il giornalismo di advocacy cerca di promuovere e sostenere cause o punti di vista specifici…e quindi può svolgere un ruolo fondamentale nell’elevare le voci emarginate e nel far luce sulle ingiustizie sociali».

Non aggiungiamo altro, se non che la netta “presa di posizione”, anche se finalizzata a cause giuste e che «spesso si concentra sulla scoperta di disuguaglianze sistemi o sulla denuncia di atti illeciti», da alcuni viene contestata, definita come “attivismo socio-politico”, magari lecito per i più tolleranti, ma che non va associato alla dinamica professionale della corretta informazione, che non ha il compito di usare «i servizi per spingere al cambiamento o sensibilizzare l’opinione pubblica».

Eppure, anche senza voler far ricorso a uno dei massimi maestri del giornalismo, Joseph Pulitzer (che non occorre presentare) in un articolo/lezione dal titolo Il potere dell’opinione pubblica, agli inizi del secolo scorso scriveva: «Catturare l’attenzione, persuadere e ottenere l’appoggio solidale della grande massa inerte che noi chiamiamo pubblico è un compito delicato e difficile. La stampa, in quanto principale mezzo d’informazione, è l’unica all’altezza di farlo. E se svolgerà questo compito con intelligenza, coscienziosità e coraggio, diffondendo consapevolezza come il sole diffonde la luce,

il potere dell’opinione pubblica contribuirà alla giustizia nel governo, alla trasparenza in politica e a una

più alta moralità negli affari e nella vita sociale della nazione». Ecco, pur facendo a meno di dotti richiami di fondo, non può essere trascurato come «Il giornalismo di advocacy può accendere discussioni pubbliche e attirare l’attenzione su questioni poco considerate. Portando alla ribalta storie d’importanza sociale, favorisce conversazioni che possono alimentare cambiamenti positivi».

LE UTOPIE CONCRETE

Ecco, in modo diretto o indiretto, tale “modello” giornalistico, potendo dare voce a chi voce non ha o ne ha poca e ininfluente nel mainstreaming, «aiuta a sfidare le narrazioni dominanti e a creare un panorama mediatico più inclusivo».

Così, esempi tipo quelli prodotti dalle varie Associazioni dei consumatori (senza fare singoli nomi per

non scontentare qualcuno); o quelli che già nel nome della testata portano “diritti” nella dicitura, assumono oggi un certo peso fattivo nel condizionare (in positivo) alcune soluzioni prese dalle istituzioni.

Perché la società civile esiste, eccome, checché ne dica una certa corrente di pensiero, e su questa intende incidere la cultura sostenuta dal giornalismo di advocacy.

Scrive Giorgia Serughetti nel suo recente La società esiste (Laterza, 2023): «Utopie “concrete” o “quoti-

diane” agiscono in molti luoghi, su piccola scala, nel sociale, dove il ri- mando allo “spazio buono” che non c’è non si limita a operare come ideale regolativo, ma plasma modi possibili di avere a che fare con luoghi, oggetti e pratiche. Si possono descrivere in questi termini le esperienze dal basso di welfare di prossimità, mutuo soccorso, comunità di cura, che mettono in atto e insieme anticipano alternative alla privatizzazione e mercificazione dei bisogni».

Utopie concrete e quotidiane, le chiama, e sono “esperienze dal basso”, ormai diffuse su tutto il territo-

rio del nostro Paese e in alcuni casi anche ben visibili con i loro umili organi d’informazione, e la loro palese esigenza di comunicare il contenuto ideale, la visione del mondo, oltre che il vissuto dalle persone.

LA DEONTOLOGIA E LA RESISTENZA CIVILE

Ma il giornalismo è fondato su fatti e prove, per dirla in soldoni, e il rischio che “la presa di posizione” sia equivocata, è dietro l’angolo. Che fare, allora?

Trasparenza, innanzitutto, distinguendo tra i fatti, supportati da studi e ricerche mai definitive, e le

opinioni (palesemente indicate al lettore); onestà intellettuale, un principio fondamentale del giornalismo. Poi coinvolgimento del lettore, non occasionale o furbesco, ma concreto e costante. Ricerca dell’equilibrio, tra obiettività e advocacy, grazie ad un approccio attento e misurato, in cui il

giornalista definisca con chiarezza non solo il contesto nel quale i fatti si collocano, ma anche e soprattutto rivelando eventuali conflitti di interesse, personali o di gruppo.

Come comportarsi? Qui, per necessità di sintesi, puntiamo, innanzitutto, sulla necessità di attivare il circuito positivo della formazione, fin da giovani: uno strumento importante e decisivo per acquisire le competenze necessarie. Digitando le parole “Advocacy sui media – Toolkit per le competenze

dei giovani”, si ottengono proposte interessanti. Ma è solo uno tra i tanti strumenti.

Più in generale, però, occorre una strategia alta, che viene suggerita in un ponderoso e articolato saggio di Erica Chenoweth, esperta in azioni non violente di resistenza civile, e che dirige il “Laboratorio di Azione Non violenta” ad Harvard, nel suo libro Come risolvere i conflitti. Senza armi e senza odio con la resistenza civile (Sonda, 2023), cita gli “addestratori associati al King Center e ad altre istituzioni che si occupano di diffondere i principi e la filosofia di Martin Luther King Jr, avendo sviluppato un modello in sei punti, adattandolo dai suoi scritti.

Sono: 1) raccolta delle informazioni; 2) attività educativa; 3) impegno personale; 4) discussione/negoziazione; 5) azione diretta; 6) riconciliazione.

Sei punti base per una vigorosa azione di resistenza civile, che in tempi di pace e di crisi della democrazia, significa, innanzitutto, partire da un’informazione mirata, corretta, approfondita. Ancora Pulitzer, nel già citato, Il potere dell’opinione pubblica, scrive: «Oggi la gente è molto di più disin-

cantata al riguardo. Riesce a individuare il sostenitore di coalizioni votate al proprio tornaconto così come il non meno egoistico demagogo che le attacca con veemenza. Ha mostrato di apprezzare e di riporre fiducia in quei giornali che sono assolutamente indipendenti e inflessibili nella loro fedeltà

a quanto ritengono corretto, che “denunciano frodi, imposture e combattono ogni pubblico male e abuso” senza timori e senza favori». Lui mostrava di aver fiducia nella “gente”. Potremmo essere scettici, oggi, ma come possiamo noi dargli torto, se ci diciamo sostenitori di un giornalismo affatto accomodante?

L’autore, VITTORIO SAMMARCO, è docente alla Pontificia Università Salesiana