18 Agosto 2025
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Tre storie: quelle di Mohammed, Maria e Irina, arrivate in un centro della Caritas

Viaggiatori della speranza e della solidarietà

viaggiatori della speranza (che fanno volontariato)

Fabio Figara

Al centro di una bellissima e alberata piazza – conosciutissima dai livornesi – sorge l’imponente chiesa di S. Maria del Soccorso, innalzata nel XIX secolo come voto dei cittadini per la liberazione da un’epidemia di colera. Uscendo da una delle porte laterali del sacro tempio, all’interno di un cortile con adiacente una piccola stanza ricavata da un locale inutilizzato, si svolgevano le attività della piccola Caritas parrocchiale. Non vi avevo mai prestato più della dovuta attenzione ma, in un giorno di primavera di molti anni fa, la calca eccessiva di persone che incrociai attirò la mia curiosità.

Era un punto di raccolta e distribuzione di abiti, di fornitura settimanale di viveri e un centro d’ascolto nato per le famiglie del quartiere che, nel tempo, si era sviluppato per l’arrivo di molti migranti. Pur tra molte difficoltà, un piccolo gruppo di signore già in pensione, insieme ad altri volontari saltuari, gestiva da tempo l’intero servizio, aperto nell’arco della settimana ma anche, e soprattutto, la domenica mattina, per permettere a chiunque di potervi chiedere aiuto. Avvicinandomi a questa realtà, trovai uomini e donne, di varia età e nazionalità, che vi si affacciavano nella speranza di incrociare una voce amica, di trovare una camicia o un paio di pantaloni, o magari del buon pane. Nel tempo molti erano riusciti a costruire lentamente un dialogo sia con i volontari che tra loro, parlando delle proprie storie ma anche delle proprie speranze.

Ad esempio, c’era Mohammed, senegalese arrivato in Italia da qualche anno, che tutta la settimana viaggiava sul camion per consegnare merci in ogni punto del Bel Paese e che, almeno la domenica, puntualmente, riusciva comunque a dare un aiuto come volontario: in cambio, qualche volta, chiedeva solo dei vestiti da inviare alle figlie e alla moglie, ancora lontane, per le quali aspettava di avere fondi a sufficienza, permessi e autorizzazioni che permettessero loro di raggiungerlo.

C’era Maria, una giovane Rom che, sin da quando era molto piccola, sostava con la nonna appena fuori della chiesa per chiedere le elemosine: più o meno avremmo avuto la stessa età, ma cresciuti in due mondi e in due modi diversi, che pur convivevano. Maria che, una volta presa un po’ di confidenza, parlava apertamente di qualche suo sogno, per poi arrendersi, inevitabilmente, al fatto di essere Rom, e narrando di come funzionava la vita tra la sua gente; come quando raccontò delle usanze per i matrimoni, di cui era vistosamente preoccupata: era infatti necessaria una dote da versare al padre di lei come caparra perché, nel caso che lo sposo avesse poi maltrattato la moglie eccessivamente (caso purtroppo molto frequente), il padre della sposa, come capo famiglia e “proprietario” originario della figlia, avrebbe dovuto ottenere comunque un risarcimento…

Poi c’era Irina, che aveva lasciato i figli in Romania per venire a fare la badante in Italia, inviando loro qualche soldo ma privandoli inevitabilmente dell’amore materno per anni; Enzo, che non gli bastava la pensione per vivere; Gianni, a cui invece non era sufficiente lo stipendio. E così i percorsi di vita, le esperienze, i progetti e i desideri di molti di loro, pur nell’indigenza, si incontravano in quel piccolo cortile: ed erano storie di viaggiatori e viaggiatrici che senz’altro dovevano essere raccontate.