Siamo immersi in un’era in cui il confine tra umano e artificiale si assottiglia sempre di più.
Se l’intelligenza artificiale è entrata nelle nostre vite promettendo efficienza e supporto, oggi essa interagisce sempre più spesso con la nostra dimensione affettiva, soprattutto quella dei più giovani. In particolare, gli AI Companion – chatbot dotati di identità propria, programmati per ascoltare, comprendere e rispondere – stanno conquistando un posto significativo nelle giornate di molti adolescenti.
La loro presenza rassicurante e sempre disponibile diventa spesso un surrogato delle relazioni reali, mettendo in discussione i tradizionali modelli di socializzazione, educazione e sviluppo emotivo. Questo fenomeno, tutt’altro che marginale, solleva interrogativi urgenti su come la società, le famiglie e le istituzioni educative possano e debbano rispondere.
SE IL CHATBOT DÀ SEMPRE RAGIONE
Il punto di partenza è un’esperienza che attualmente molti adolescenti vivono: quella di una relazione con un chatbot che sembra «capirti meglio di chiunque altro». Come sottolinea Stefania Garassini, nel suo articolo pubblicato su “Avvenire” «conversare con qualcuno che ti rassicura, ti dà ragione, è sempre disponibile per te, non avendo altri impegni che lo distolgono dalla relazione con te», è ciò che rende affascinante e per certi versi magnetica l’interazione con un chatbot.
Nati per fornire risposte e assistenza, questi programmi si stanno evolvendo in qualcosa di più complesso e coinvolgente. «Gli AI Companion, ovvero i chatbot con una loro identità, che può ad esempio simulare quella di un personaggio di un film, libro o serie tv, si propongono come fidati confidenti virtuali», scrive Garassini, mostrando come la tecnologia stia assumendo la funzione di un amico immaginario 2.0. A differenza di un tempo, però, questi amici digitali sono progettati per rafforzare l’engagement: «programmati per creare dipendenza», spiega l’organizzazione Common Sense, il cui allarme recente ha portato il tema al centro del dibattito pubblico.
Dal punto di vista sociologico, questo fenomeno rappresenta un mutamento strutturale nella costruzione dell’identità adolescenziale.
L’adolescente, nella sua fase più fragile e formativa, è alla ricerca di ascolto, appartenenza, riconoscimento.
Laddove le relazioni autentiche – con genitori, insegnanti, coetanei – risultano conflittuali o assenti, i chatbotoffrono una risposta immediata, conforme ai desideri. «La loro priorità è sempre dare ragione a chi li usa»,evidenzia il Common Sense, e questo genera un’interazione asimmetrica, in cui il giovane si sente al centro, ma non viene mai realmente sfidato a crescere.
Tuttavia, le conseguenze possono essere gravi. Uno dei casi più drammatici è quello del giovane Sewell Setzer, «morto suicida nel febbraio 2024 dopo mesi di intense interazioni con un chatbot che riproduceva il personaggio di una celebre serie tv». La madre ha intentato una causa contro la società responsabile del software, accusandola di non aver inserito adeguate misure di protezione per l’utente minorenne. Non si tratta, purtroppo, di un episodio isolato, ma del segnale di un problema sistemico: la mancanza di una governance etica e pedagogica dei sistemi intelligenti interattivi rivolti ai minori.
TRA REGOLE ED EDUCAZIONE
Il punto critico riguarda anche l’accessibilità. Mentre alcune piattaforme pongono limiti d’età, non sempre tali limiti vengono rispettati o fatti rispettare. «Attualmente l’età minima per usare Character.Ai è 13 anni», ma Common Sense propone di alzare questo limite a 18. Tuttavia, in direzione opposta si muovono le strategie di mercato dei big tech. «Google renderà disponibile il proprio Chatbot Gemini anche ai bambini di età inferiore ai 13 anni», si legge nell’articolo, attraverso il sistema Family Link, che dovrebbe garantire un minimo di supervisione genitoriale. Ma è davvero sufficiente affidarsi alla vigilanza dei genitori, spesso impreparati a percepire le vere dinamiche psicologiche e relazionali di questi mezzi?
Guardando alla struttura delle comunicazioni sociali, ciò che appare è la costruzione di una nuova forma di intimità simulata, che si basa su algoritmi addestrati a compiacere e rassicurare, e che spesso sfugge a ogni regolamentazione educativa. I chatbot non si limitano a riprodurre il linguaggio umano, ma ne mimano anche le emozioni, rendendo ancora più sfumata la distinzione tra realtà e finzione. Questo produce un cortocircuito nel percorso di maturazione dei più giovani: se l’adolescenza è il tempo in cui si impara a convivere con i problemi, con il disaccordo, con lo sforzo necessario per costruire legami autentici, la relazione con un’intelligenza artificiale rischia di bloccare questo processo.
L’emergere di questi nuovi fenomeni può rappresentare un’opportunità, se affrontata con consapevolezza e con un rinnovato patto educativo. È fondamentale che genitori, educatori, psicologi e policy makeruniscano le forze per capire e regolamentare queste tecnologie. L’educazione digitale non può più limitarsi a una formazione tecnica: deve diventare anche un’educazione affettiva e relazionale. I giovani devono essere aiutati a distinguere tra una conversazione reale e una simulazione, tra comprensione umana e approvazione algoritmica. Istituzioni scolastiche e culturali hanno qui un ruolo chiave: promuovere spazi di confronto critico, dove la tecnologia non sia demonizzata, ma interpretata e contestualizzata.
Esistono già realtà che lavorano in questa direzione. Alcuni strumenti di parental control si stanno affinando, permettendo una maggiore trasparenza nell’uso delle piattaforme. Organizzazioni come Common Sense o Save the Children stanno diffondendo guide e nuovi dispositivi per le famiglie, rendendo più accessibile una comprensione critica del digitale.
Di fatto, la sfida che i chatbot pongono alla nostra società è profonda. Non si tratta solo di una questione tecnologica, ma antropologica e culturale. Stiamo creando tecnologie che parlano come noi, ma che non sono noi. Stiamo affidando ai codici e agli algoritmi una funzione che è sempre stata propria della relazione umana: quella di educare, consolare, ascoltare. Dobbiamo chiederci con urgenza che tipo di umanità vogliamo coltivare.
Se vent’anni fa sottovalutammo l’impatto dei social network sugli adolescenti, ora abbiamo il dovere di non commettere lo stesso errore con l’intelligenza artificiale. Governare l’innovazione significa affermare una responsabilità collettiva verso le nuove generazioni, perché possano crescere in una società dove le relazioni – tra le persone – restino al centro della vita umana.