Altre testimonianze e riflessioni offrono in questo numero speciale di Desk indispensabili cornici e letture dei profondissimi cambiamenti che stiamo vivendo e sul senso, vecchio e nuovo, del fare giornalismo.
Ho pensato di focalizzare il mio contributo partendo da un ristretto angolo visuale: la necessità, oggi più di ieri, di andare oltre. Di leggere gli obiettivi veri. Ad esempio, quelli delle imprese. Lì dove principalmente si crea lavoro (non sempre degno e solidale….) e reddito.
Si esce oggi ancora – e si è usciti a maggior ragione dieci-venti-trenta anni fa – dalle Università con una laurea, e forse si terminano anche le business school con un master, senza aver ascoltato, letto, discusso, approfondito l’approccio della biodiversità imprenditoriale.
Riprendo l’esempio iniziale. La centrale che produce energia è in genere posseduta da società di capitali. Si tratta molto spesso di imprese transnazionali, quotate in borsa. Chi vi investe denaro lo fa – con la parziale eccezione degli Stati – per ottenere un profitto individuale.
La comunità energetica è invece un’associazione o una cooperativa. È di proprietà di un condominio, di un gruppo di cittadini e dell’Amministrazione comunale, di una o più Diocesi, di una o più parrocchie (vedi anche una recente inchiesta pubblicata da Toscana Oggi).
La comunità energetica punta a coinvolgere, a favorire processi partecipativi, a prevenire o ridurre la povertà energetica (che improvvisamente è entrata, prepotente, in famiglie e fasce di popolazione che già erano toccate da forme di povertà educativa e/o sanitaria, oltre che di reddito, naturalmente). I cittadini e le realtà organizzate che costituiscono una comunità energetica, smettono di essere solo consumatori e diventano produttori-consumatori, prendono parte ai processi di produzione-gestione-distribuzione dell’energia e degli incentivi stabiliti da leggi regionali, nazionali e dal PNRR… (CONTINUA SU DESK, disponibile nelle librerie Paoline e sullo store di Avvenire).