Il primo rischio è quello di travisare la realtà e strumentalizzarla. Lo fanno i politici, ma lo fanno anche molti giornalisti. Gli assassini potevano essere ‘nordafricani’, come sembrava dalle prime testimonianze? E allora via con l’insulto, con parole velenose, truci. Ogni volta mi tornano in mente il duplice omicidio di Novi Ligure e le prime farneticanti accuse di Erika e Omar. Per sviare le indagini dettero la colpa a degli albanesi. Era il 2001, non c’era ancora l’accelerazione impressa dai ‘social’. Ma nei bar o davanti alle tv per qualche ora almeno tutti si sono accaniti contro i “pericolosi extracomunitari”.
Il secondo rischio, altrettanto grave, interpella ancora di più noi giornalisti. Ed è quello di fermarsi alla prima verità disponibile, a volte facile, ‘di comodo’. Le cinque domande del giornalismo autentico, quelle che ormai sanno anche i bambini, restano inevase. Non si scava, non si chiede, non ci si pone dei dubbi. Sulla dinamica esatta, sulle ragioni, sulla situazione di quel momento, in quel luogo. Non si tratta di ‘giornalismo d’inchiesta’, è solo ‘giornalismo’. E a volte rinunciamo a farlo.
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