Diamo per scontato che i media siano potenti, che nei sistemi democratici il potere necessita di controllo, ma anche che la libertà di stampa sia una condizione imprescindibile al fine di informare i cittadini in maniera adeguata. Sullo sfondo dello scandalo delle intercettazioni telefoniche del News of the World, nel quale sono stati coinvolti i vassalli di Murdoch e soprattutto in considerazione delle manovre omertose, con le quali i boss della BBC hanno coperto per anni un moderatore televisivo pedofilo, comincia a delinearsi un concetto per il quale sia nella lingua tedesca che nella lingua italiana non è ancora stato coniato un termine appropriato. Nel mondo anglosassone in questi casi si parla di media accountability, cioè della “disponibilità dei media verso un’assunzione di responsabilità e verso una maggiore trasparenza”. Questa descrizione è la migliore che si possa dare e non è un segreto per nessuno che la media accountability lasci molto a desiderare.
Tre sono gli ambiti redazionali nei quali essere accountable (attendibilità e responsabilità) è d’obbligo: in caso di eventuali errori nella copertura di una notizia, nella gestione di contestazioni o smentite e nel modo in cui i media riferiscono di se stessi e sul modo di fare giornalismo. Nella lingua anglosassone è più facile tenere a mente questo concetto grazie all’allitterazione. Si parla infatti delle tre “C”: corrections policies, complaints management e coverage of journalism.
Per capire come mai il media management si giochi questa opportunità con tale leggerezza dobbiamo analizzare la questione ancora più da vicino. Nel mercato dei media occorre differenziare tra i segmenti di alta e bassa qualità. Se ci si rivolge ad un segmento di utenti con istruzione di basso livello, bisogna essere coscienti che costoro hanno una competenza dei media molto limitata. In inglese si è coniato il concetto di media literacy dei lettori. La loro capacità di spesa è limitata. I media, che si rivolgono a questo segmento di pubblico, sono finanziati per lo più attraverso la pubblicità. Nel segmento più acculturato si richiede all’utenza di partecipare con uno sforzo economico maggiore a causa della diminuzione delle entrate da parte degli inserzionisti. Il giornalismo serio di approfondimento riuscirà a rimanere sul mercato solo se aumenterà il numero dei lettori che apprezzano la qualità e giudicano importante l’autorevolezza e la credibilità giornalistica.
Alla luce di queste considerazioni va modificata la tesi di partenza. I responsabili dei media di alto livello agiscono ragionevolmente e nell’interesse della loro stessa impresa se investono maggiormente nella media accountability. Rimane aperta la domanda perché questo accada così raramente, ma ora ci arriviamo.I grandi agglomerati di media sono i primi a ostacolare la media accountability. La loro stessa potenza mediatica li induce semplicemente ad ignorare il dovere di essere accountable. Inoltre nei grandi gruppi industriali i gioielli di famiglia di segmento alto vengono spesso sovvenzionati grazie ai denari che entrano in cassa con i prodotti di bassa gamma. Gli interessi di tutto il gruppo hanno la precedenza sull’interesse della singola pubblicazione che, destinata al mercato di alto livello, giustificherebbe lo sforzo maggiore di credibilità.
In ogni caso tutte queste argomentazioni razionali spiegano solo parzialmente il reale comportamento del media managament. Se si crede alle teorie dell’Economia del comportamento, ci riferiamo a Dan Ariely, i responsabili dei media incorrono in errori di valutazione che portano a “comportamenti irrazionali prevedibili in anticipo”. Anche l’autore lucernese Rolf Dobelli, campione di vendite, ha descritto in maniera divertente questo fenomeno, riferendosi però al segmento dei manager solo in generale.
I caporedattori, che non vogliono interferenze da parte dei Consigli della stampa o dell’ombudsman, sopravvalutano inoltre le loro capacità di gestire in maniera adeguata errori, reclami e conflitti. Al contempo sottovalutano lo spreco di tempo che ne deriverebbe per loro. Nel gergo degli economisti del comportamento costoro cadrebbero vittime delle fiducia eccessiva in se stessi (effetto di overconfidence) e di contro-illusione. Capita talvolta che i dirigenti si isolino al vertice e siano preda della follia di riuscire ad avere tutto sotto controllo.
In ogni caso tutte queste argomentazioni razionali spiegano solo parzialmente il reale comportamento del media managament. Se si crede alle teorie dell’Economia del comportamento, ci riferiamo a Dan Ariely, i responsabili dei media incorrono in errori di valutazione che portano a “comportamenti irrazionali prevedibili in anticipo”. Anche l’autore lucernese Rolf Dobelli, campione di vendite, ha descritto in maniera divertente questo fenomeno, riferendosi però al segmento dei manager solo in generale.
I caporedattori, che non vogliono interferenze da parte dei Consigli della stampa o dell’ombudsman, sopravvalutano inoltre le loro capacità di gestire in maniera adeguata errori, reclami e conflitti. Al contempo sottovalutano lo spreco di tempo che ne deriverebbe per loro. Nel gergo degli economisti del comportamento costoro cadrebbero vittime delle fiducia eccessiva in se stessi (effetto di overconfidence) e di contro-illusione. Capita talvolta che i dirigenti si isolino al vertice e siano preda della follia di riuscire ad avere tutto sotto controllo.
Non è da trascurare neppure “l’effetto gregge” all’opera anche tra i responsabili dei media. È questo “istinto gregario” che meglio spiega le differenze culturali tra i vari paesi del mondo occidentale rispetto alla gestione della media accountability. Negli Stati Uniti per esempio l’ampio margine di correzione e la presenza di un ombudsman fortemente istituzionalizzata è da ricondurre al New York Times, che serve da faro guida nel mondo anglosassone.
Sia in Italia sia nei paesi dell’Europa orientale e meridionale il poco interesse nei confronti della media accountability va considerato in un contesto più ampio. Là dove il sistema giuridico è marcescente, là dove pratiche mafiose si infiltrano nello stato e nell’economia, là dove non si avverte né “un interesse pubblico” né “uno spazio pubblico”, non si può pretendere di trovare un media management che veda i vantaggi di una affidabilità mediatica.
I paesi di lingua tedesca si trovano in una posizione di mezzo. Non si intravede un forte cheerleader che sostenga l’efficacia di un ombudsman o un Consiglio della stampa o di una presa di responsibilità a pubblicare una rubrica delle correzioni. Però nei maggiori quotidiani indipendenti si vedono per le meno resti degli accenni di media accountability. In Svizzera nella SRF addirittura in misura maggiore che in Germania, dove i giganti ARD e ZDF sono segnati dall’arroganza del potere politico.
Grazie ai blog e ai social network, grazie alle possibilità derivanti dall’interattività e dalle interconnessioni, i media mainstream perdono davvero rapidamente la sovranità procedurale rispetto all’obbligo di affidabilità. Susanne Fengler, a capo del progetto di ricerca citato all’inizio di questo articolo, ha recentemente coniato e messo sul tavolo il concetto di “crowd-sourced media accountability”. La professoressa ritiene possibile che in internet, attraverso i blog e i social network si possa ottenere quella trasparenza dei media e del giornalismo, che la maggior parte dei media mainstream ci nega ancor oggi con irrazionale protervia. I media management farebbero quindi meglio a prendere sul serio la media accountabiliy prima che gli sfugga irrimediabilmente di mano.
(EUROPEAN JOURNALISM OBSERVATORY)
(EUROPEAN JOURNALISM OBSERVATORY)

