PER UN’ETICA DELLA COMUNICAZIONE (teso integrale)
Vedo un ragazzo immerso nel rettangolo di luce di un computer.
E’ solo, in una stanza. La stanza dentro quel pozzo sterminato. Intorno pochi libri. Deve studiare. Domani andrà a scuola. Ma sembrano degli accessori quei libri. La sua mente naviga lontano.
C’è anche un televisore in quella stanza. Anche quello un di più. Marginale. Sempre più spento. L’Auditel conferma: giovani tra i 15 e i 25 anni sempre meno davanti al video tv. Vedono più spesso la tv attraverso internet. Il Grande Fratello non è più tra i top ten dell’audience giovanile.
Sarà accaduto anche a voi di vedere un ragazzo che passa troppo tempo su internet. Quando spegne e se ne stacca pare si senta perso, smarrito, tocca terra come preso da angoscia. Una sindrome che dilegua quando riaccende e torna nell’universo della virtualità. Dove si accetta solo ciò che piace. La realtà dispiace. L’Italia televisiva è un paese anziano. I giovani sono un segmento molto piccolo della platea tv. La serie Vieni via con me di Fazio e Saviano è stata una eccezione. I giovani vanno verso il fai da te, su internet. Ma è un vero fai da te?
E’ una prima domanda. Rivolta ai giovani. Perché ai giovani? Perché il nostro tema è l’Etica. E la formazione è parte dell’etica. Parliamo dei giovani perché sono i soggetti in formazione. E non c’è formazione che possa prescindere dall’etica.
Quando nei lontani anni Sessanta uscì il libro del sociologo canadese McLuhan, molti di noi giornalisti che lavoravano in tv, non fummo solleciti a capire cosa volesse dire quello slogan troppo ermetico divenuto poi famoso: “Il mezzo è il messaggio”.
Per noi il messaggio era il contenuto del nostro lavoro, i nostri servizi, il senso delle cose che trasmettevamo. Il mezzo era per noi il video dove passano le immagini e le parole. Semplicemente un elettrodomestico, come disse il grande Eduardo. A una nostra segretaria che al telefono gli disse: qui parla la televisione, Eduardo rispose: “E qui parla il frigorifero”.
Più tardi abbiamo capito. Dalla tv a internet il salto è stato rivelatore. Ora ci è più chiaro. Prima il video, adesso internet, sono il mezzo che ormai diventa la protesi tecnologica di me, di noi che li usiamo, un prolungamento dell’Io nella finzione virtuale.
Internet ha sconvolto la vita quotidiana dell’ultima generazione nell’era postmoderna. Ha rivoluzionato emozioni e costumi. I guru della rivoluzione internettiana considerano il Web come l’incarnazione del sogno visionario della mente globale, nata dalla fusione della persona con il suo prolungamento tecnologico. Così, mezzo e messaggio sono totalmente unificati. L’intuizione di McLuhan pienamente avverata. Uomo e macchina totalmente fusi.
Sulle sue tracce, il neurologo americano Nicolas Carr, studiando il nesso tra mezzo e messaggio, perviene a queste conclusioni. Allarmati, noi concentriamo la nostra attenzione sui contenuti che leggiamo e vediamo sul computer. Ma ciò che più conta sono gli effetti che su di noi produce il mezzo tecnico. Il mezzo sta modificando il nostro modo di pensare e anche di agire. Leggere su uno schermo non è come leggere un libro. Se tu leggi un libro stai impegnando le aree celebrali associate al linguaggio, alla memoria, alla riflessione. Se leggi una pagina web, stai usando le regioni celebrali prefrontali che sono associate all’attività del decidere, non del riflettere. Stiamo amputando la nostra abilità collegata alla cultura del libro, dove già eravamo in deficit. (Hemingway diceva che metà degli italiani scrivono libri, l’altra metà non li legge. Cattiverie). In realtà le cose peggiorano. Stiamo amputando la nostra attitudine a ragionare, al pensare sequenziale che collega causa ed effetto: il lento, profondo dialogare tra me e me, quel pensare che è sempre scelta, giudizio etico.
Conoscere è capire il senso delle cose. Pensare è parlare con se stessi, diceva Kant, che tornava a Platone, a quel giudizio dentro di me, per cui mi ritrovo sempre a un bivio. Devi scegliere tra buono e cattivo, tra bello e brutto, tra bene e male. Insomma il pensare è sempre pensare etico. Secondo l’analisi di Carr, avremo una umanità più rapida, ma meno riflessiva. Più lingua che pensiero. Parole senza pensieri non toccheranno mai il cielo, dice Amleto.
La cultura dello schermo ci fa saltare da un argomento all’altro restando in superficie. Ci stiamo trasformando in macchine da lavoro tagliate su misura per una industria culturale che opera sul cervello come la catena di montaggio sul corpo dell’operaio fordista. Questo è Google. Stiamo vivendo una mutazione antropologica che ha come laboratorio l’essere umano, corpo e anima.
Sarà il nostro un pensiero sempre meno razionale. Sempre meno scandito sulla consecutio temporum che è sintassi della memoria, dei tempi. Sarà invece la grammatica del gomitolo, la sintassi del Blob. Chiudendo il suo libro “Alla ricerca della memoria” Eric Kandel, premio Nobel 2000 per la medicina, scrive: “Se vi ricorderete qualcosa di questo libro è perché dopo che avrete finito di leggerlo, il vostro cervello sarà leggermente diverso”. Internet invece lo lascia tale e quale, se non lo peggiora. La cultura digitale diventa chiusura in un eterno presente, senza tempo né spazio. Pensare è un perenne interrogarsi. “L’essenza dell’uomo (Kundera) ha la forza di una domanda”. La cultura digitale invece è fatta solo di risposte, confezionate altrove. Ci crediamo interlocutori: Invece siamo ostaggi.
La dialettica ci ha dato mille e mille anni di civiltà del sapere. Cosa ne resterà? Negli sms, nuova lingua della digital generation, è sparita una sillaba: il CHE. Quella paroletta che fa il periodo con le proposizioni relative: E’ sparito il Che, ve ne siete accorti? Il Che dell’argomentare complesso. Il discorso si è semplificato in si e no.
Qui mi soffermo. Mi rendo conto che voi forse state pensando: questo è un discorso pessimistico che appartiene allo schieramento culturale degli Apocalittici, come si diceva una volta. Nossignori. Non mi schiero né con gli Apocalittici né con gli Integrati. Sto su un altro registro, come tra poco cercherò di spiegarvi.
Anzitutto chiediamoci: siamo davvero tutti in un “villaggio globale”, come scriveva McLuhan? La rete ha creato una grande illusione. I nuovi media non sono più mass media, non sono più di massa. Io sono solo davanti al computer. C’è un rapporto personale tra me e internet. Posso scegliere io ciò che voglio. In realtà non è cambiata la logica unidirezionale dei messaggi. Non siamo usciti dalla passività. “Noi non viviamo in un villaggio globale – dice Manuel Castells – ma in villette personalizzate, prodotte globalmente e distribuite localmente”.
Ma ogni conquista tecnologica non sfugge alla legge del progresso. Anche la comunicazione contiene un mix di positivo e negativo. E qui entra in gioco la libertà di scegliere. Entriamo sul terreno dell’etica. E’ in gioco la responsabilità. Pensiamo all’ultima clamorosa rivelazione del Web: WIKILEAKS. Uno scandalo a livello planetario che ha sconvolto le diplomazie di mezzo mondo. Dimostra una cosa e il suo opposto.
Prima. Nascondere il privato è ormai un’utopia. Lo stiamo vedendo in questi giorni, barbaramente. Si coprono di ridicolo quanti cercano di bloccare le intercettazioni che diventano prove nei processi. Oggi tutto è comunicabile, senza confini. Per la prima volta Internet sta demolendo la Muraglia cinese con tutti i misteri della Città proibita. La Rete diventa un medium liberatorio ed eversivo nei regimi totalitari. In Messico in 6i mesi sono stati uccisi %) giornalisti, giovani che avevano aperto dei blog denunciando il narcotraffico.
Seconda cosa, l’aspetto negativo. Il Web può anche trasformarsi da strumento di liberazione in potere di controllo sociale in quelli stessi regimi illiberali. Intanto ha sconvolto le relazioni internazionali nella politica degli Stati Uniti, travolgendo ogni riserbo, anche sui temi della guerra e della pace. Uno solo aveva capito come sfuggire a ogni controllo servendosi di un mezzo antichissimo, i pizzini: il capomafia Bernardo Provenzano. Il bilancio fatelo voi. Io credo sia buona cosa che gli scandali avvengano e i loro autori siano smascherati. Molta ipocrisia viene al pettine. Anche i guerrafondai truccati da pacifisti, i lupi travestiti da agnelli. Apparire onesti conviene, diceva il vecchio Guicciardini, ma se non lo sei davvero, la cosa non regge a lungo. Perciò converrà essere onesti se vogliamo apparire onesti. Ma forse un bilancio è ancora prematuro. Stiamo vivendo le verifiche della storia, sotto i nostri occhi.
La rete e i social network hanno davvero un potere liberatorio, o sono, al contrario, uno strumento che dà potere ai forti e disarma i deboli? Partendo dal libro “La delusione della rete” di Eugeny Morozov, il columnist del New York Times, Roger Cohen, sostiene che la libertà di collegarsi è uno strumento di liberazione potentissimo. Non c’é dubbio che i regimi repressivi hanno compreso al volo come sfruttare o sopprimere una tecnologia rivoluzionaria come Internet che mette a rischio la loro legittimità. Ma è difficile bloccare i social media nel mondo giovanile in fermento da un capo all’altro dei paesi arabi. E tuttavia la rivolta del Cairo offre spunto a opposti rilievi. A gonfiare il ruolo rivoluzionario di Internet, scrive Morozov in “Net delusion”, è la cieca fiducia nella Dottrina Google. Mentre l’esperto dei nuovi media Carlo Formenti sostiene che i regimi autoritari ormai sono passati al contrattacco, usano la Rete come area di censura e propaganda. In Cina, a fronte di un pugno esiguo di dissidenti, vi è qualche milione di blogger asserviti al potere, pronti a denunziare i “nemici del popolo”.
L’esperienza della rivolta del Cairo è inquietante. La libertà si spegne non solo con i carrarmati, ma anche con l’interruzione di Internet. L’oscuramento di venerdì 28 gennaio è il primo di “coprifuoco elettronico totale”. I social network azzerati: web, email, sms e cellulari: Il paradosso è quell’interruttore è stato spento non al Cairo, ma in Occidente: a Londra e a Parigi. Il mercato egiziano è infatti suddiviso tra ‘inglese Vodafone e France Telecom. Il governo di Mubarak ha imposto all’amministratore di Vodafone di oscurare e il manager ha obbedito. “Spegnere la rete – ha confessato – è quello che non vorremmo mai fare, ma se non avessimo rispettato l’ordine saremmo diventati fuorilegge e forse arrestati”. Morale: le grandi multinazionali del Web non sono in grado di garantire la libera informazione in un mondo condizionato dal grande capitale. Un grande poeta a me caro, Thomas Stearns Eliot, l’autore di Assassinio nella Cattedrale, si chiedeva: “Dov’è la sapienza che abbiamo persa, facendola diventare conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo persa facendola diventare informazione?”. Ecco dov’è: in un piccolo angolo che si trova in fondo a ciascuno di noi. L’angolo dove tu dialoghi con te stesso, in silenzio, e a volte neanche te ne accorgi. E non puoi fuggire. Là comincia quel segreto esercizio che si chiama coscienza. Una ginnastica interiore nella palestra della responsabilità. Il mafioso che uccide. Il killer che stronca la vita del magistrato Falcone, che uccide il giudice Borsellino è una persona che prima di uccidere l’altro ha ucciso in se stesso la coscienza. E’ raro che torni in sé, come il protagonista di Delitto e Castigo di Dostoevskij, che accetta di redimersi. I pentiti, salvo rarissime eccezioni, sono tali per il codice penale, non per il tribunale della coscienza.
Ecco la posizione alternativa agli Apocalittici e agli Integrati. Alternativa ai pessimisti e agli ottimisti: il posto della responsabilità. Nel mondo Web c’é ancora la persona. Il giornalista non può ridursi a megafono di messaggi fabbricati altrove.
Il documento pontificio sulla Comunicazione pubblicato alle soglie del Duemila apre con queste parole: “L’uso che le persone fanno dei mezzi di comunicazione sociale può conseguire effetti positivi o negativi… non sono forze cieche della natura che sfuggono al controllo umano”.
Nella giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2011, Papa Ratzinger ha ribadito le posizioni del Magistero rivolgendosi in particolare ai giovani. In positivo e in negativo, come da sempre. In positivo ha posto in risalato le feconde possibilità di dialogo e di solidarietà. Ma ha anche indicato i rischi di rifugiarsi in un mondo virtuale parallelo, per quanti cedono all’illusione di costruirsi artificialmente un profilo pubblico. Tra catastrofisti da una parte e rassegnati dall’altra, queste parole ci portano al realismo cristiano dell’impegno etico, della responsabilità, a cominciare da noi operatori che si stiamo dentro. Alla luce della fede “la storia della comunicazione è un lungo viaggio da Babele, simbolo del collasso della comunicazione,, verso la Pentecoste e al dono delle lingue”. Su questo passaggio così evocativo ho solo da osservare: attenzione, oggi è più difficile di ieri il controllo individuale e professionale dei messaggi. La manipolazione è sempre più agguerrita, sempre in agguato. Ha colpito e colpisce sempre, a tradimento. Ha ferito e mortificato una delle figure a me più care: Benedetto XVI, pensatore e teologo profondo, limpida espressione della moderna cultura filosofica. Ricordate cosa si scatenò attorno al suo famoso discorso all’Università di Ratisbona, il 12 maggio 2006? In quella cattedra dov’era stato giovane brillante professore. Tutto per quella frase citata dall’imperatore bizantino Manuele II. Maometto, secondo lui, “aveva portato di nuovo cose cattive e disumane, come la direttiva di diffondere la fede per mezzo della spada”. E il Papa aggiunse: “Troppo brusco, al punto da essere per noi inaccettabile”. L’infelice cronista saltò nel suo resoconto proprio quel giudizio, la parola “inaccettabile”: E l’odio islamico si scatenò contro il mite papa Ratzinger. Per lui una vera croce. Del resto l’aveva detto un giorno, davanti a Paolo VI: “Il luogo autentico del Vicario di Cristo è la Croce”. Pensate dove può giungere la manipolazione.
Quali rimedi si possono escogitare?
L’americana Arlene Rinaldi si è impegnata a formulare un decalogo, un galateo di norme da rispettare per chi usa un computer. Ve ne cito qualcuna. La prima: “Non userai mai un computer per danneggiare altre persone”. Numero due: “Non interferirai al lavoro col computer di altre persone”. Terzo: “Non userai il computer per rubare”. E via di questo passo. Ora voi capite che questa non è l’etica. Semmai è l’etichetta, la buona educazione. Ha solo un grave difetto: internet non è gestito da un ente superiore al quale appellarsi. Dunque ci risiamo. Nessuno può sostituirsi alla coscienza, alla persona. E’ ancora là tutta la sapienza che abbiamo persa. Ma anche tutta quella che dobbiamo ritrovare e coltivare. Non è dato al giornalista di essere infallibile e neppure obiettivo, diceva il nostro Gaetano Salvemini: mi basta che sia onesto. Anzitutto con se stesso.
Un luogo comune insidioso su Internet è quello della neutralità: Stiamo attenti. Il documento pontificio avverte con chiarezza: “IL fatto che tanta comunicazione fluisca in una direzione sola, ossia dalle nazioni industrializzate e ricche a quelle arretrate e povere, solleva questioni etiche di vasta portata. Dobbiamo scegliere: la nuova tecnologia sarà a servizio di tutti i popoli, o uno strumento per arricchire i ricchi e rafforzare i potenti?”. C’è sempre un Nord-Sud del mondo. Anche nella comunicazione. Anche in Italia. La Chiesa è stata chiara nei documenti dei Vescovi sul Mezzogiorno. Qui la conservazione è struttura di regressione, e la regressione è struttura di peccato contro la giustizia.
“La distribuzione iniqua dei beni materiali tra Nord e Sud è esacerbata dalla cattiva distribuzione delle fonti della comunicazione”. E’ scritto nella Centesimus Annus: “Coloro che non riescono a tenersi al passo con i tempi possono essere facilmente emarginati”. E’ il rischio del Sud. Il rischio di una intera generazione. L’ultimo rapporto Censis raffigura il nostro paese come un campo di calcio senza neppure le porte dove indirizzare la palla. E’ la crisi di senso, crisi esistenziale del valore della vita. E’ la crisi del desiderio. Ripenso a quel ragazzo chiuso davanti al computer. Desiderio è parola composta da De e Sidera. De vuol dire senza. Sidera, vuol dire stelle. Desiderio è sognare le stelle, aprirsi al cielo’ l’azzurro della speranza. Ecco dove sta il vuoto che nessun computer riuscirà a colmare.
“Si può sprofondare negli abissi della degradazione semplicemente stando seduto da solo di fronte a un monitor e a una tastiera”. Sono dure queste parole della Chiesa che ammonisce: “La rete del futuro potrebbe trasformarsi in questo scenario: una rete di individui isolati, api umane nelle loro celle… Che cosa ne sarebbe della solidarietà, che cosa ne sarebbe dell’amore in un mondo così? “.
Ecco finalmente la parola conclusiva, essenziale: l’Amore. L’anello mancante a tutto questo discorso fatto di freddi ragionamenti. La grande profonda riflessione di papa Ratzinger sta tutta nello sforzo di conciliare fede e ragione, intelletto e cuore. E’ il punto cruciale della crisi moderna. A questo impegno spesso manchiamo noi giornalisti, presi come siamo dalla crudezza dei fatti, l’aridità della cronaca, nella dimensione della fretta, con l’assillo di arrivare prima degli altri.
Quanti errori e quanto spreco di umanità. Nella mia esperienza professionale affiora ogni tanto un rimprovero, un senso di colpa. Un episodio particolare. Ricordo quando, dopo un anno di traversie giudiziarie, venne assolto il giovane Matteo il pazzo, accusato di aver ucciso su una terrazza di Bari una ragazzina dopo averla violentata. La sera venne da me al giornale. Stette seduto in silenzio. Disse solo queste parole: “E adesso a me un lavoro chi me lo darà?”. Si alzò e scomparve. Era mancato qualcosa in tutte quelle cronache che avevamo pubblicato. Era mancato il cuore.
In quel famoso discorso di Ratisbona, papa Ratzinger disse queste parole a conclusione di questa riflessione sull’etica della comunicazione: “Dio si è mostrato come logos, la parola, e come logos ha gito e agisce pieno d’amore. Certo, l’amore, dice San Paolo, sorpassa la conoscenza, ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero”. (UCSIPUGLIA,LIBERONEWS,RAINEWS24)