Oggi è il Primo Maggio, festa dei lavoratori, di ogni generazione. Registriamo però che il lavoro giornalistico non è più il sogno di molti giovani. O, meglio, lo sarebbe ancora, se non ci fosse di continuo uno confronto/scontro con la realtà. Di qui anche il tentativo dell’Ucsi, da tempo, di esplorare nuove strade, anche nel modo di fare giornalismo. E questo, in ogni caso, mantenendo fermi alcuni principi. In primo luogo, quello dell’indipendenza.
Ma l’indipendenza deve essere innanzitutto di pensiero. Significa autonomia e ‘schiena diritta’, come diceva spesso il presidente Ciampi. Tanti colleghi coraggiosi pagano l’integrità e la coerenza addirittura con la loro vita!
E l’indipendenza senza dubbio dovrebbe essere anche economica. E molti giornalisti, loro malgrado, non ce l’hanno. I dati sono impietosi e svelano una realtà che conosciamo bene ma che a volte mostriano di non comprendere fino in fondo.
Quasi la metà dei giornalisti attivi oggi in Italia guadagna meno di cinquemila euro all’anno. Che razza di indipendenza è possibile con 400 euro al mese? Inoltre anche nella nostra professione si è indebolita (e di molto) la classe media, e per tanti di noi ormai il ‘privilegio’ è quello di avere semplicemente uno stipendio al mese.
Questa fotografia della situazione del giornalismo italiano emergeva bene qualche anno fa in un ottimo e “profetico” dossier realizzato dall’Ucsi Sardegna nella sua regione. E risulta oggi, in uno studio commissionato in Toscana, dal Corecom.
“Precarietà e incertezza sono le parole che accompagnano sempre più frequentemente il lavoro giornalistico”, è una delle conclusioni a cui arrivava quel rapporto.
L’indipendenza economica infine dovrebbe essere anche quella della testata giornalistica per cui si lavora, che altrimenti è indotta a reperire risorse sul ‘mercato delle notizie’, che è sempre più ampio e meno controllabile. E che spesso è oscuro, sfrutta e paga l’abilità del comunicatore per veicolare contenuti impropri, persuasivi, manipolati.
La pratica quotidiana rivela che le regole deontologiche, ineccepibili, da sole tuttavia non bastano. E’ una questione etica, si dirà. Ed è irrinunciabile, ci mancherebbe, che ci sia una solida ‘etica del giornalista’. Ma è etico, ricordiamocelo tutti, anche avere la dignità di un salario giusto. Quando esso manca, si corrono i rischi di essere condizionati e a nostra volta di condizionare gli altri.
E c’è anche un altro grave pericolo: quello di perdere un’intera generazione di bravi giornalisti che magari, di fronte alla difficoltà anche solo di sbarcare il lunario, rinunciano a questa professione.
Sono quei giovani che, trovandosi la strada sbarrata, scelgono di fare altro nella vita. Ne ho conosciuti molti in questi anni (praticamente una generazione intera), che avrebbero avuto i numeri, le qualità, il coraggio e la passione per essere degli ottimi giornalisti. Li abbiamo persi, i rimpianti adesso dobbiamo averceli tutti noi. E dobbiamo soprattutto impegnarci, con i nostri mezzi, le nostre possibilità, la nostra fantasia, la nostra associazione e tutti gli organismi di categoria, perchè questo non avvenga più in futuro.