23 Agosto 2025
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Le prime interviste e l'incontro con Rezarta, che gettò i semi della professione di giornalista

Il viaggio più bello. A due passi da casa, ma con il mondo dentro

il percorso da giornalista e l'incontro con Rezarta

Luisa Pozzar

Tranquillizzo subito chi leggerà queste poche righe estive. Non racconterò di lunghi e magnifici viaggi o di mete esotiche e ricercate perché nella mia vita i viaggi che più mi hanno “parlato” e dei quali conservo ricordi indelebili sono stati compiuti spesso a una manciata di passi da me, da dove vivevo, da dove vivo. A portata di sguardo, direi.

Forse il viaggio più importante per il mio “essere giornalista” – che ricordo sempre con grande emozione e gratitudine – è stato di un chilometro o poco più. Quello che mi ha portato dalla casa in cui a Trieste, allora, vivevo con la mia famiglia di origine, al borgo poco distante, dal quale ci separava una strada statale che allora chiamavamo “la camionale”. Era un borgo che potevo vedere ogni giorno dal balcone del nostro piccolo appartamento. E proprio in quel borgo, tra l’altro, era vissuta la mia nonna materna (e viveva ancora una delle mie zie) dopo l’esperienza del campo profughi che aveva atteso la famiglia di mamma dopo l’esodo dall’Istria. Una di quelle pagine dolorose della storia che appartiene alle radici di tante famiglie triestine e non solo. E che è parte anche delle mie.

Quasi per caso – che caso non è mai – nel tempo in cui mi accingevo a concludere i miei studi universitari, la crisi e poi il conflitto in Kosovo – che seguì l’altro tremendo conflitto nella ex-Jugoslavia di non molti anni prima; ricordo che, in quei giorni di grande paura, dal balcone di casa potevamo vedere, con l’aiuto di un binocolo, un carro armato con il cannone puntato proprio verso di noi – divennero in breve una questione anche nostra. Iniziarono ad arrivare, sempre più numerosi, i profughi da quelle zone di guerra.

Famiglie, bambine e bambini, giovani uomini. Con tanta paura negli occhi e storie drammatiche come unico bagaglio. E uno dei primi centri di accoglienza – l’avvio di quella felice esperienza che fu l’accoglienza diffusa a Trieste – fu realizzato presso un ex asilo poi divenuto Ricreatorio “Ricceri” – uno dei tredici Ricreatori Comunali, realtà peculiari di Trieste – proprio a poche decine di metri dalla casa di nonna Maria. Fu un attimo: sentii che me ne dovevo occupare. E il professore di geografia applicata appoggiò il mio desiderio. Così la mia tesi di laurea si focalizzò proprio sulle migrazioni e, in particolare, sui richiedenti asilo e i rifugiati provenienti dal Kosovo.

Non sapevo ancora cosa avrei fatto “da grande”. Eppure, fu proprio lì, in quei frangenti che iniziai a fare le prime interviste della mia vita. Non furono interviste facili: al di là della struttura uguale-per-tutti necessaria per poter classificare i dati raccolti (rigorosamente in forma anonima) e inserirli nel mio studio accademico, mi trovai a incontrare volti e persone. E, insieme a essi, drammi e paure difficili da descrivere. Con due parole di shqiptare imparate in velocità, ma con cura, provavo ad abbattere la prima barriera umana all’incontro. Poi l’interprete che mi accompagnava, Luli, mi aiutava a spiegare che ero lì per conoscere la loro situazione e per poterne parlare nella mia tesi di laurea. Desideravo che la mia presenza e le mie domande non diventassero motivo di ulteriore preoccupazione per loro.

Proprio lì, ecco l’incontro inaspettato con Rezarta – “vuol dire Raggi d’argento!” mi disse con l’entusiasmo dei suoi 12 anni – che mi cambiò letteralmente la vita. Fu l’intervista, anzi, l’incontro più bello che ancora oggi, a distanza di tanti anni, ricordo con emozione e gratitudine. Quei suoi occhi verdi – intrisi del dramma che aveva vissuto, ma pieni zeppi di speranza – divennero i miei nuovi occhi per guardare la realtà. La rividi ancora una sola volta. Poi più nulla.

A distanza di molti anni, i suoi occhi divennero il titolo di un mio piccolo libro di racconti. E nel corso di una delle presentazioni, incontrai la sua insegnante di italiano che mi disse che Rezarta, un giorno ormai lontano, era partita di nascosto con la sua famiglia per la Germania. Ogni volta che la penso, si riaccende in me una luce. E, anche se non la rivedrò mai più, la sento vicina e la immagino felice, finalmente.

Quello fu il primo seme piantato sulla strada della professione. Ma – come accade spesso – lo riconobbi solo dopo.

Oggi, con il cuore a un chilometro dalla casa di allora e la vita piantata altrove, il mio viaggio prosegue nel ricordo e mi accompagna nel lavoro quotidiano. E con la stessa gratitudine dico ancora: grazie, Rezarta.