E mia nonna, occhi incredibilmente grigi, e costanti dolori ai piedi, lo seguiva, magari facendo un prezzo speciale a chi avrebbe faticato a pagare la trapunta che lei, nella sala di casa interamente occupata dall’attrezzatura, realizzava per settimane con passo –anzi mano – sapiente e costante. Più tardi mia mamma, giovane sposa molto lontanadalla sua terra d’origine, incaricherà me, bambino, di consegnare a una conoscente in difficoltà una sporta –la sporta della carità, sarebbe diventata per me – di prodotti alimentari.
La carità forse la si eredita con il dna, o forse la si respira con la buona aria di una tradizione autentica, come quella dello stesso piccolo centro marchigiano; una tradizione di cristianità semplice, magari mutuata dalla fede dipinta sulla facciata dell’antica chiesa dove splendide e semplici scene della vita di Gesù hanno colpito la mente e i cuori delle tante generazioni che hanno varcato la soglia del tempio per partecipare alla messa o alle funzioni che scandivano la giornata e tutto il tempo della vita. E se la vista era abbagliata dagli affreschi dei maestri del ‘400, l’udito era allietato dal suono originato nel piccolo campanile fino a diffondersi tutt’attorno e ad avvolgere quasi con delicatezza la vallata, nel silenzio non ancora spezzato dal rumore delle troppe auto di corsa nella Statale.
O forse no, la carità la si assume un po’ alla volta, a dosi omeopatiche: piccoli colpi di nuova vita fecondache entrano in circolo e muovono il pensiero per poi trasferirsi nell’anima. C’è chi, invece, è più…drastico: fa l’incontro della vita e in un battibaleno si trasforma. Ma qui è un problema di maestri; ce ne sono pochi in giro anche se, a ben guardare, si trovano. Certo, bisogna saper cercare e bisogna essere preparati all’incontro. Disponibili.
La carità (valore singolare per chi lo esercita e plurale per chi ne beneficia perché si moltiplica) è diventata un valore sempre più raro in questi tempi così complicati dove troppo spesso il tornaconto personale è il principale obiettivo. La “cultura” prevalente è ormai quella del “vengo prima io” o al massimo “veniamo prima noi della tribù X”.
In realtà c’è uno stile di vita, un modello, ancora seguito da tanti e che si traduce nell’elogio della quotidianità, contrassegnata dal lavoro fatto bene, i compiti in ordine, gli obiettivi raggiunti; insomma parliamo di un servizio efficiente, ben costruito che va a vantaggio della gente, della comunità, una volta avremmo detto “del prossimo”. Chi, allora, ha un rapporto così ampio, plurale, nei confronti della gente, più dei giornalisti?
Anche i giornalisti esercitano la carità? Certo che la esercitano, che possono esercitarla. A loro – a noi -viene chiesto di narrare i fatti “nella verità sostanziale”; se volete – anzi …volete – in modo anche piacevole e – perché no? – avvincente.
Talvolta è richiesta un’opinione sincera, motivata e magari tecnica, sulla quale poi confrontarsi. Svolgere bene questa trafila conduce alla carità se si ha a cuore il lettore, la sua dignità, la consapevolezza che ci si rivolge a una persona con la quale non puoi barare e alla quale non puoi rifilare, come diceva Enzo Biagi,“acqua inquinata”.
La carità, insomma, è quella cosa semplice semplice che…No, non è affatto così. Perché anche la carità presuppone, molto spesso, di dover dire “sì, sì” oppure “no, no”. Dover scegliere. Dare voce a…Già, ai potenti a chi non ha voce? E quanti giornalisti, obbedendo a questo principio, hanno rischiato e addirittura perso la vita testimoniando il senso più alto della carità, perciò dell’amore per la gente oltre che per la propria professione. Prendere dunque posizione.
Il poeta Charles Peguy scrisse che quando ci rifiutiamo di sporcarci le mani nella cura della vita finiamo ben presto per restare senza mani: “E’ un fatto: troppe volte viviamo senza mani, abbiamo perduto le nostre mani laggiù in qualche tappa del cammino; ci siamo dimenticati del loro significato, della loro funzione, e per anni e anni non ne abbiamo avuto coscienza. In verità, le mani che si danno si scoprono comeoperatrici del dono, come protagoniste della storia”.
E’ sempre la carità, quindi, che come un fiume carsico attraversa la vita facendola emergere nella misura in cui se ne avrà la consapevolezza. Nel libro “Ogni mattina a Jenin” un saggio arabo dice alla protagonista, una giovane palestinese: “Nasciamo tutti possedendo già i tesori più grandi che avremo nella vita: uno di questi è la mente, un altro è il cuore. E gli strumenti indispensabili di queste ricchezze sono il tempo e la salute. Il modo in cui userai i doni di Dio per aiutare te stesso e l’umanità sarà il modo in cui Gli renderai onore”.
Con la penna, anzi con il computer, o magari con la voce o con qualche nuova diavoleria, la sfida – in definitiva – è la stessa di sempre; vivere la semplicità del quotidiano secondo il valore incommensurabile dei cieli infiniti. Eccola, allora: è lei, è la bellezza della carità.