Realismo e pragmatismo di fronte al cambiamento climatico…
Il nostro punto di partenza non può che essere una considerazione molto realistica – e purtroppo un po’ amara – di papa Francesco circa la sensibilità ecologica presente nei cristiani. «La crisi ecologica – scriveva ormai dieci anni fa nella Laudato si’ – è un appello a una profonda conversione interiore. Tuttavia dobbiamo anche riconoscere che alcuni cristiani impegnati e dediti alla preghiera, con il pretesto del realismo e della pragmaticità, spesso si fanno beffe delle preoccupazioni per l’ambiente. Altri sono passivi, non si decidono a cambiare le proprie abitudini e diventano incoerenti. Manca loro dunque una conversione ecologica, che comporta il lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo che li circonda» (LS 217).
Gli esempi che si potrebbero fare sono innumerevoli. Dall’uso ancora assai frequente della plastica nelle nostre riunioni ecclesiali, nei campi scuola ecc., al consumo di idrocarburi di preti che si spostano sempre con la propria macchina… con l’alibi della scarsità di presbiteri. Insomma, si fa un’enorme fatica a cambiare stile di vita. Quasi la stessa difficoltà che si sperimenta a far entrare lo stile sinodale nella nostra vita di comunità. Appunto, realismo e pragmaticità: perché un vescovo dovrebbe perdere tanto tempo ad ascoltare i suoi preti o, peggio ancora, i laici, dal momento che, poi, alla fine, la decisione dovrà prenderla lui? E perché preoccuparci di qualche decina di piatti di plastica se tanto in giro per il mondo le politiche di molte nazioni continuano sostanzialmente a ignorare la questione ecologica, basti pensare al riarmo annunciato dall’Unione Europea?
Resistenza e confusione…
Non è davvero casuale che papa Francesco parli di conversione ecologica, segnalando, appunto, che ci è richiesto un cambiamento, a un tempo, spirituale e culturale. E che il compianto Papa venuto dalla fine del mondo abbia sentito la necessità di aggiungere una sorta di “secondo capitolo” che illumina e completa la citata enciclica Laudato si’: davvero, non era mai accaduto che un pontefice scrivesse due documenti sullo stesso tema a distanza di appena otto anni – pochi, di fatto, ma un’infinità, purtroppo, data la velocità sconvolgente a cui procede il cambiamento climatico –.
Per altro, l’esortazione apostolica Laudate Deum prende avvio proprio dalla presa d’atto che, nonostante il grido di allarme lanciato nel 2015 – a tutti gli effetti l’unico formulato con tanta energia e clamore da un leader mondiale fino a oggi –, «con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura» (LD 2).
Con due sottolineature assai intriganti. Da un lato, infatti, parla di resistenza, segnalando, come già accennavamo, le non poche persone «che hanno cercato di minimizzare la crisi climatica globale. Citano dati presumibilmente scientifici, come il fatto che il pianeta ha sempre avuto e avrà sempre periodi di raffreddamento e riscaldamento». Quella che soprattutto viene rimossa se non negata è «l’insolita accelerazione del riscaldamento, con una velocità tale che basta una sola generazione – non secoli o millenni – per accorgersene» (LD 6).
Dall’altro, ed è un aspetto che ci interessa particolarmente nel nostro discorso sulla comunicazione, è la confusione che si genera relativamente a questo argomento: «Per porre in ridicolo chi parla di riscaldamento globale, si ricorre al fatto che si verificano di frequente anche freddi estremi. Si dimentica che questi e altri sintomi straordinari sono solo espressioni alternative della stessa causa: lo squilibrio globale causato dal riscaldamento del pianeta» (LD 7). Papa Francesco parla di «mancanza di informazioni» che portano a sovrapporre erroneamente «le grandi proiezioni climatiche che riguardano periodi lunghi – si tratta almeno di decenni – con le previsioni meteorologiche che possono coprire al massimo qualche settimana». E precisa, tornando proprio sulla questione della scarsa conoscenza del fenomeno: «Quando parliamo di cambiamento climatico ci riferiamo a una realtà globale – con costanti variazioni locali – che persiste per diversi decenni». Si tratta di un vero e proprio «tentativo di semplificare la realtà» e di distorcerla tornando, ancora una volta, a dare la colpa ai poveri invece di avere sempre chiaro e presente che «una bassa percentuale più ricca della popolazione mondiale inquina di più rispetto al 50% di quella più povera e che le emissioni pro capite dei Paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri. Come dimenticare che l’Africa, che ospita più della metà delle persone più povere del mondo, è responsabile solo di una minima parte delle emissioni storiche?» (LD9).
Un ultimo argomento che sempre ha a che fare con la disinformazione e la diffusione di fake news riguarda i posti di lavoro. Se ne perderebbero moltissimi – si dice – insistendo con la riduzione dell’«uso di combustibili fossili e sviluppando forme di energia più pulita», mentre è vero esattamente il contrario: «ciò che sta accadendo è che milioni di persone perdono il lavoro a causa delle varie conseguenze del cambiamento climatico» (LD 10).
Non è davvero un caso che, in Fratelli tutti, papa Francesco abbia dedicato nove acutissimi numeri proprio all’illusione della comunicazione, offrendo una riflessione magistrale sulla questione del nostro comunicare e di come, soprattutto la logica dei social, finisca per chiuderci in bolle autoreferenziali dalle quali è esclusa ogni forma di legittimo dissenso: «Il funzionamento di molte piattaforme finisce spesso per favorire l’incontro tra persone che la pensano allo stesso modo, ostacolando il confronto tra le differenze. Questi circuiti chiusi facilitano la diffusione di informazioni e notizie false, fomentando pregiudizi e odio» (FT 45).
Protagonisti del cambiamento?
Il mondo cambia assai rapidamente, anche in positivo, e noi facciamo molta fatica a stare al suo passo. Tanto più consolante, allora, la notizia che papa Leone ha deciso di annoverare san John Henry Newman nella già lunga lista dei dottori e delle dottoresse della Chiesa. I motivi di questa scelta, assolutamente indiscutibile e davvero opportuna, sono molti, ma a noi piace metterne in evidenza soprattutto uno. John Henry Newman è soprattutto il “dottore del cambiamento”, ovvero, come lo chiamava lui, dello “sviluppo”. La fede cristiana non è semplicemente chiamata ad adattarsi ai cambiamenti che progressivamente avvengono nella storia. Questo è quello che ogni corpo vivente è obbligato a fare se vuole anche solo sopravvivere. La fede cristiana è questo stesso cambiamento e non sarebbe tale se non lo vivesse nel senso più profondo e pieno della parola. Ne è all’origine, lo promuove e lo stimola e, in questo quadro, pensa l’essere umano come quella persona creata a immagine e somiglianza di Dio il cui destino è quello di crescere e svilupparsi, creare e fiorire offrendo sempre il meglio di ciò che gli è stato affidato.
Una delle espressioni più icastiche di questa intuizione è assai nota. Facendo ricorso all’immagine del fiume, Newman sottolinea che, di solito, quando si va in cerca di acqua pura e fresca, ci si indirizza verso la sorgente del ruscello. In realtà, tale osservazione, per quanto suggestiva, non si può applicare alla storia di una concezione filosofica o di una credenza: «queste sono, infatti, più limpide e più forti quanto più il loro letto diviene profondo, largo e traboccante» (J.H. Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, tr. it., Jaca Book, Milano 2003, p. 75). E aggiunge che, all’inizio, semmai, l’acqua di quell’idea o di quella credenza avrà ancora il sapore della terra da cui fuoriesce, sarà ancora segnata dalle paure e dai limiti di chi non ha ancora imparato ad assumerla in tutta la sua profondità e novità. E che saranno anzi gli stessi ostacoli, le stesse traversie che dovrà superare nel suo scorrere a renderla più pura e trasparente. Insomma, conclude Newman, se «in un mondo più alto le cose vanno altrimenti, qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni» (ivi).
«Sulla terra vivere è cambiare»: certo, Newman non si riferisce – e come avrebbe potuto più di un secolo e mezzo fa – al cambiamento climatico, alla repentina e devastante modifica del nostro ambiente vitale che ci sovrasta e ci schiaccia. Ma la sua riflessione resta illuminante proprio in riferimento a quegli atteggiamenti di resistenza che abbiamo cercato di mettere in evidenza. No, i cristiani non si possono permettere di negare il cambiamento, climatico, sociale o culturale che sia. Anzi, potrebbero e dovrebbero essere in prima fila nel leggerlo e viverlo. Dopo tutto, non possiamo dimenticare la profetica definizione che dei cristiani dettero i giudei di Tessalonica mentre li trascinavano davanti ai capi della città accusandoli di andare «contro i decreti dell’imperatore affermando che c’è un altro re, Gesù»: «Quei tali che mettono il mondo in agitazione» (At 17,6-7). Se i cristiani sono questo, che paura possono avere di fronte a qualsiasi cambiamento, essendo essi stessi, appunto, i protagonisti del più grande cambiamento di tutti i tempi?
Dinamismo pasquale
Con un’avvertenza decisiva. È il dinamismo pasquale quello che i cristiani vivono al centro di ogni cambiamento, essi che hanno saputo accogliere e attraversare la sfida di adattarsi alla notizia più sfolgorante e indigeribile che mai sia stata data nella storia: la risurrezione di Gesù dai morti. È il mistero pasquale a costituire il Dna del cambiamento, di ogni cambiamento. Ed esso è composto di passione, morte e risurrezione. È un mistero di kenosi, come lo descrive l’inno cristologico contenuto nella lettera ai Filippesi. In esso ci sono la scelta di non aggrapparsi a nessun privilegio, lo svuotarsi di sé stessi, l’assumere la condizione di gente che si mette a servizio del bene comune, obbediente e pronta a dare la vita per gli altri. E solo attraversando questi territori inospitali ma inevitabili si spalancano la luce e la gloria (cfr. Fil 2,5-11).
Sull’onda del cambiamento, i cristiani hanno il compito di ricordare all’umanità che non può affidarsi completamente a sé stessa e a quella certa hybris che la caratterizza. Che non si può affrontare, insomma, il cambiamento climatico – e nessun altro cambiamento, in verità – con lo stesso paradigma tecnocratico che ci domina e caratterizza la stragrande maggioranza delle nostre scelte quotidiane. I cristiani possono e devono parlare di limite, di impotenza, di umiltà. E, contemporaneamente, incitare l’umanità a mettere in campo le sue migliori qualità per vivere il cambiamento, quelle doti che, appunto, sono singolarmente in sintonia con il territorio inospitale in cui si realizza il mistero della Pasqua: no privilegi, no individualismo sfrenato, servizio al bene comune, dono della vita.
Per altro, la logica del cambiamento conosce un’esperienza già analizzata da san Giovanni della Croce, il quale avvertiva che, per andare dove non siamo, dobbiamo necessariamente passare per dove non siamo mai passati… –: il cambiamento è tale, infatti, da non offrirci la possibilità di vedere in anticipo dove ci porterà… lo si può solo vivere dall’interno, il più umanamente possibile. E, in questo, il cristianesimo è davvero straordinariamente esperto!
L’autore di questa riflessione sul cambiamento climatico per le nostre comunità, don Alessandro Andreini, è consulente ecclesiastico di Ucsi Toscana


