29 Febbraio 2020
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Oltre le ‘carte’ c’è la responsabilità del giornalista. Anche, oggi, sul Coronavirus

In questi giorni di bulimia informativa sul virus Covitd19 ho assistito ad uno scambio curioso di battute all’interno di del talk “Agorà Speciale Coronavirus”. La psicologa e docente Anna Oliverio Ferraris, interpellata dalla conduttrice Serena Bortone, spiegava come il diffondersi di questo virus fosse stato eccessivamente drammatizzato dai mezzi di informazione tanto da riempire l’intera scaletta di telegiornali e palinsesti televisivi. Ancor prima di terminare l’analisi la Bertone incalza subito la professoressa dicendo che è “giusto informare” spezzando una lancia a favore del diritto di cronaca, prerogativa dei giornalisti.

Ermanno Giuca

Spesso, però, ci dimentichiamo che il diritto di cronaca non è illimitato. Non sempre si può scrivere, dire o mandare in onda tutto e a ricordarcelo sono le Carte deontologiche e la stessa legge professionale che richiama noi giornalisti ai nostri doveri: “È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui”.

In queste giornate il Consiglio Nazionale dell’Ordine ha più volte chiesto ai colleghi di rifarsi alla “Carta dei doveri del giornalista”del 1993 (e ormai parte integrante del Testo Unico dei Doveri del Giornalista che recita: «Il giornalista tutela i diritti dei malati, evitando nella pubblicazione di notizie su argomenti medici un sensazionalismo che potrebbe far sorgere timori o speranze infondate. In particolare non diffonde notizie sanitarie che non possano essere controllate con autorevoli fonti scientifiche».

L’uso ricorrente di termini come “Emergenza sanitaria”, “Psicosi” sino ad arrivare a quello di “Pandemia” non hanno fatto altro che distorcere una realtà che, seppur grave per i focolai del contagio, poteva essere raccontata in modo più responsabile e meno allarmistico.

Inoltre, è utile ribadire come dal nostro articolo 21, la giurisprudenza abbia ricavato anche dei limiti di natura pubblicistica, ovvero dei beni appartenenti alla collettività che non possono essere lesi dai cronisti perché costituzionalmente garantiti. Tra questi c’è l’ordine pubblico, inteso come ordine legale e normativo su cui poggia la convivenza sociale, il cui turbamento può avvenire anche tramite «la diffusione di notizie false, esagerate e tendenziose» (art. 654 c.p.). Presentare la realtà dei fatti in modo distorto, com’è stato fatto da molti direttori di testate televisive e cartacee, oltre che rappresentare una fattispecie di reato penale, è un modo scorretto di esercitare l’art. 21.

A partire da questa spiacevole vicenda, c’è chi sicuramente invocherà una nuova “Carta” (magari una Carta di Codogno?) che regolamenti il linguaggio giornalistico durante la diffusione di epidemie come il Covit-19. Basterà o resterà disattesa come tante altre parti del Testo Unico? Direttori di testate come Libero – che in prima pagina ha titolato “Prove tecniche di strage” – verranno sanzionati per questo uso sproporzionato di queste parole?

È necessario che in queste occasioni intervengano attori come il Consiglio Nazionale dell’Ordine, i Consigli Regionali e anche gli stessi Consigli di disciplina territoriali (che ci auguriamo sanzionino chi, per raccogliere bacini di audience, ha giocato col sensazionalismo della parola o dell’immagine). Ma sappiamo anche che oltre la deontologia, le leggi, le sanzioni e i sorveglianti, c’è l’intenzione del singolo giornalista che in ogni momento è chiamato a scegliere se fare buona o cattiva informazione. Sappia, però, che se la macchina informativa viene volontariamente inceppata a risentirne è l’intero Paese.