Novanta minuti che hanno cambiato la sua esistenza: come un fiume assetato, che con le piogge autunnali ritrova le sue anse gonfie di acqua, dopo quei tre goal al Sarrià concentrati in settanta giri di lancette – tutti infilati nel sacco al rintocco del 5 (5’, 25’ e 75’), a rimarcare il forte legame con la data del 5 luglio che, dopo anni difficili, lo restituì al suo mestiere fissandolo per sempre nell’olimpo dei goleador – Rossi piazza una doppietta alla Polonia in semifinale e apre le marcature nella finalissima contro la Germania che consegna all’Italia un meraviglioso Mundial.
Dentro il trionfo collettivo di una Nazione, la personalissima epopea di Paolo Rossi, quasi una sorta di nemesi che consegna il senso di giustizia al terreno di gioco, è stata emulata a Italia ’90 da Totò Schillaci e a Usa ’94 da Roby Baggio, emozionando tutti gli italiani e facendo sognare milioni di bambini.
Ecco perché Pablito è un eroe di questo sport, un patrimonio di tutti gli appassionati e non solo di un gruppo ristretto di tifosi di una compagine. Eppure lui non ha mai amato indossare i panni dell’eroe. Anzi, è sempre rimasto un ragazzo. Come quel frugoletto che, dopo gli esordi nel Santa Lucia, alla Cattolica Virtus sgusciava in area di rigore come un’anguilla inafferrabile facendo disperare decine di portieri, quasi stesse preparando a suon di goal secchi di copiose lacrime da far versare poi tutte insieme, come un corso d’acqua che straripa libero e felice, ai brasiliani e agli italiani, per motivi esattamente opposti, presenti quel giorno al Sarrià.
Perché alla fine quella partita è il condensato di tutto, il riassunto della sua vita, costellata di prove e ostacoli prima di trovare posto nell’olimpo dei grandi: dopo il passaggio appena sedicenne alla Juventus, è vittima di due gravi infortuni e subisce l’asportazione dei menischi, roba che a 18 anni può stroncare una carriera, ma lui con la forza e l’ingenuità del ragazzo di provincia si rialza e insiste. Boniperti lo manda in prestito al Como, dove però Osvaldo Bagnoli preferisce dare spazio a un altro Rossi, Renzo, relegando così Paolino all’ombra della panchina e a un’obbligata retrocessione in serie B, che nel 1976 lo vede approdare al Lanerossi Vicenza. È lì, nella città del Palladio, che Rossi incontra Giovan Battista Fabbri il quale completa la metamorfosi di Paolo da ala a centravanti, ma soprattutto riconosce nei suoi occhi il guizzo del ragazzo.
Rossi ha bisogno di questo, della fiducia e dell’entusiasmo, proprio i sentimenti che don Ajmo Petracchi gli aveva fatto conoscere durante l’esperienza alla San Michele Cattolica Virtus. In un ambiente che sa comprenderlo, Rossi esplode, si laurea capocannoniere del campionato cadetto con 21 goal e si ripete l’anno successivo in serie A, dove timbra il cartellino per 24 volte e da “re dei bomber” del torneo (l’impresa di aggiudicarsi il titolo di capocannoniere per due anni consecutivi, prima in serie B e poi in serie A, nella storia del calcio italiano è stata ripetuta soltanto da Del Piero tra il 2007 e 2008) trascina i biancorossi alla salvezza nonché se stesso ai Mondiali di Argentina ’78.
Nell’avventura sudamericana Bearzot gli rinnova la stima e viene ripagato dal centravanti pratese con tre marcature, in una competizione in cui l’Italia si classifica quarta. Rossi continua a segnare negli anni successivi a Vicenza e a Perugia, ma lo scandalo del calcioscommesse lo fa precipitare nel baratro di una squalifica lunga due infiniti anni. Paolo si sente innocente e beffato, gli occhi del ragazzo si fanno tristi, ma basta la volontà di Boniperti di riacquistarlo per far scoccare nuovamente la scintilla: Rossi, ai box forzati dal 1980, torna a calpestare l’amato prato verde il 2 maggio ‘82, appena 3 presenze che però gli valgono la convocazione ai Mondiali. Gli esordi sono tragici, contro Polonia e Perù Rossi non la vede praticamente mai, i giornalisti lo definiscono “ectoplasma” e Bearzot, nella sfida con i peruviani, è costretto a sostituirlo dopo 45 minuti…
La storia di Paolo sembra al capolinea. Come narra Piero Trellini in “La Partita”, uno dei libri più belli mai scritti sul calcio, “il sipario si dovrebbe chiudere lì. Ma negli spogliatoi abita l’ennesimo atto di fede. I suoi compagni stanno per rientrare in campo, lui è piegato su se stesso sopra la panca. Con una scarpa sì e una no. Pensa: ‘è finita’. Ma prima di chiudere la porta Bearzot lo guarda dritto negli occhi: ‘Preparati per la prossima partita’…” Quello che è accaduto dopo è storia nota: da lì, da quello sguardo di Bearzot, che sembra raccogliere da Don Ajmo e da mister Fabbri il testimone smarrito della fiducia per riconsegnarlo a Paolo, nasce il mito di Pablito.
Senza questa lunga e suggestiva storia, non si può capire Paolo Rossi. Ed il motivo per cui lui non è un eroe. Ma un ragazzo. Un eterno ragazzo, che negli occhi ha sempre conservato l’entusiasmo del fanciullo, anche quando faceva il commentatore in tv o presentava uno dei libri scritti con la sua amata Federica, una figura positiva in mezzo ad un gran vocio di nani, ballerine e paggi di un calcio diventato circo. Eppure lui sapeva rimanere ragazzo anche in quel bailamme, restituendo al pallone la purezza che lo ha reso lo sport più bello del mondo. Ecco perché, quando ieri è arrivata l’atroce notizia, tutti noi non abbiamo pensato ad un uomo ammalatosi e andatosene troppo presto, ma solo al guizzo negli occhi di un ragazzo che fino a pochi mesi fa trasmettevano la stessa luce che il 5 luglio ‘82 aveva fatto esultare un Paese intero. Anche me, che ero ancora nel grembo di mia mamma e sentivo là fuori mio babbo e mio fratello gioire proprio come due eterni ragazzi…
Foto da Rai.it

