Alzi la mano chi non è innamorato della Normandia! Chi scrive (e il sentimento per fortuna è ricambiato dalla moglie perché altrimenti sarebbe un casino tornarci insieme così spesso) verso questa regione prova una sorta di piacere fisico. Se ne scoprono, ogni volta, angoli nuovi. Celebrati o meno. Costieri o interni.
L’anno scorso (80mo dal “d-day”) fu impossibile non tornarci. Eravamo in un piccolo albergo ancora fresco di rinnovo: proprio sul porto, in una cittadina famosa anche per le conchiglie di San Jacques che in certi periodi dell’anno, per un gioco di correnti, lì si trovano a bizzeffe (Port-en-Bessin-Huppain). Da lì si raggiunge tutto.
Arrivò la domenica e in direzione Messa si scelse la non meno mitica Bayeux. Quella dell’arazzo (a modo suo un reportage di guerra). La prima città francese liberata, il giorno dopo il “d-day”, dall’occupazione nazista. Fu lì che il generale Charles De Gaulle tenne ai francesi un discorso rimasto famoso.
Già tutto il visitabile, a Bayeux, lo avevamo visto le altre vote. E così dopo la messa (un mini ricordo: la possibilità di pagare le offerte tramite pos su un cellulare fatto girare dai chierichetti) per un motivo ancora misterioso scopro un luogo, in città, ignoto.
La professione che in quel memoriale si ricorda, davanti al cimitero di guerra britannico e accanto al Museo della battaglia (qui anche una notevole sezione sui giornalisti al seguito dello “Sbarco”), riguarda guerre e violenze: decine di stele, una per ogni anno dal 1945 a oggi, con i nomi dei cronisti morti durante conflitti bellici o assassinati durante il loro lavoro.
Non fu semplice trovarlo, quel giardino verde, molto curato. Vialetti con stele in marmo. Un memoriale introdotto da una lapide in memoria di Robert Capa. E da una frase di Voltaire sulla libertà di stampa. Ci si passò davanti più volte. Non ci s’era accorti che bastava alzare un po’ lo sguardo (una lezione – alzare lo sguardo, cambiare il punto di vista – utile sempre).
Quel giorno (aveva appena piovuto. Ma lassù non è una notizia) in quei vialetti eravamo soli. Ci lasciammo dunque accompagnare in un silenzio perfetto da queste lapidi con migliaia di nomi scritti. Non fu difficile trovare i (pochi) nomi italiani. I noti (Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Maria Grazia Cutuli …) e quelli dimenticati.
Di lì a pochi giorni, su iniziativa del Comune e di Reporter Senza Frontiere) si sarebbe tenuto l’annuale iniziativa che in più giorni, con convegni e documentari, fa il punto sulla situazione di questo particolare giornalismo. Chi passa da quelle parti, giornalista o meno, veda di lasciarsi interrogare da quei vialetti.
Mi chiedo come avranno fatto quest’anno, e come faranno l’anno prossimo, a inserire i nomi di tutti quei colleghi uccisi a Gaza. In una terra dove, non a caso, il giornalismo viene tenuto fuori perché resti nell’ombra il dramma osceno (chiamiamolo pure come ci pare) che lì continua a consumarsi.
L’onere di darne testimonianza sull’orrore di Gaza è toccato a reporter, certo non famosi, uccisi per aver tentato di illuminare ciò che i signori della guerra vorrebbero tenere oscuro o manipolabile.
Chissà dunque di quanti nomi incisi sul marmo si è “arricchito” il memoriale dedicato al fotografo di guerra che incontrò la morte, nel 1954, durante il conflitto in Indocina. Posò il piede su una mina. Esplose.