9 Febbraio 2020
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Siamo membra gli uni degli altri

  di Vania De Luca Nel nuovo numero di Desk vengono citati alcuni dei protagonisti di punta della storia dei 60 anni dell’Ucsi. Ci scusiamo per qualche sicura, ma involontaria, omissione, ricordiamo qui quanti hanno avuto negli anni ruoli di responsabilità sapendoli interpretare con gratuità e spirito di servizio, e dedichiamo il fiore di una citazione a Giancarlo Zizola, spirito inquieto e creativo, grande animatore di tante battaglie ideali, al quale è intitolata la nostra scuola annuale per i giovani.

Vania De Luca

Un pensiero grato va anche ai consulenti ecclesiali che hanno accompagnato l’associazione, da Angelo Vallainc ai padri gesuiti Bartolomeo Sorge, Pasquale Borgomeo, Francesco Occhetta, preziosa presenza di questi anni recenti.

Chi scrive, prima donna presidente nazionale, firma questo articolo e questo numero di Desk con il sentimento della vedova del Vangelo, che con la sua moneta di scarso valore non ebbe altro da offrire che se stessa, per un lasso di tempo e un tratto di strada.

In tempi non facili, per la professione giornalistica, per il Paese, per la Chiesa, per il futuro dei giovani, ci piacerebbe che l’Ucsi potesse rappresentare un piccolo seme di speranza per chi voglia realmente – talora faticosamente – essere testimone di un’etica della professione, presenza di sale, di lievito e di luce nella costruzione della comunità.

Alla ricerca delle radici

Lo psichiatra tedesco Manfred Spitzer, autore di un recente saggio dal titolo Connessi e isolati, dipinge i social come frutto di un modello commerciale, e afferma che questi possono creare l’illusione di un contatto tra le persone, mentre in realtà alimentano insoddisfazione e solitudine, soprattutto nelle grandi città, dove le persone più che incontrarsi si incrociano, e dove i modelli di vita sono improntati all’individualismo, mentre «come già diceva Aristotele, l’uomo è un essere socievole, per stare bene ha bisogno di essere inserito in una comunità».

Dalla propria città all’Italia, all’Europa, quale sia lo stato di salute nelle comunità in cui ci si trova, e quale futuro queste stiano preparando è una grande domanda del nostro tempo.
L’Europa, «sentita come distante e autoreferenziale, fino al punto da far parlare di una “decomposizione della famiglia comunitaria”, su cui soffiano populismi e sovranismi», è stata oggetto dell’intervento all’assemblea generale della Cei, il 21 maggio scorso, da parte del cardinale Bassetti, che ha tra l’altro sottolineato la fatica dell’Italia a «vivere la nazione come comunità politica». Tra le italiche virtù ha citato l’accoglienza, la tradizione educativa, lo spirito di umanità, la densità storica, culturale e religiosa. Radici possibili di una comunità che, come scrive il Papa nel messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali 2019, «è tanto più forte quanto più è coesa e solidale, animata da sentimenti di fiducia» nel perseguire obiettivi condivisi, nel tempo in cui le dinamiche della Rete hanno anche a che fare con un’idea e un’esperienza nuova di cittadinanza.

La Rete ha creato «un nuovo modo di comunicare», che «può facilitare la circolazione di informazione indipendente», come si legge nell’esortazione apostolica Christus Vivit, seguita al sinodo sui giovani. In molti Paesi il web e i social network sono «ormai un luogo irrinunciabile per raggiungere e coinvolgere i giovani» (87), ma rappresentano «anche un territorio di solitudine, manipolazione, sfruttamento e violenza, fino al caso estremo del dark web». In un documento nato dal confronto tra 300 ragazzi di tutto il mondo prima del Sinodo, si affermava che «le relazioni online possono diventare disumane» e l’immersione nel mondo virtuale ha favorito «una sorta di “migrazione digitale”, vale a dire un distanziamento dalla famiglia, dai valori culturali e religiosi, che conduce molte persone verso un mondo di solitudine» (90).

Tra le tante le sfide dell’ambiente digitale, c’è il fatto che le connessioni non hanno radici, né aiutano a crearle. In questa chiave ne ha parlato il Papa a Panama nel gennaio 2019, nell’incontro con un gruppo di gesuiti della provincia centroamerica: «il mondo virtuale aiuta nel creare contatti, ma non “incontri”», ha detto, aggiungendo: «a volte “fabbrica” incontri, seducendoti con i contatti […] Ti dà soddisfazione, ti dà una consolazione artificiale, ma non ti tiene unito alle tue radici. Ti manda in orbita. Ti toglie la dimensione concreta».

Dal contatto all’incontro

La strada indicata dal Papa è allora un antidoto alla crisi delle radici, e consiste nell’aiutare soprattutto i giovani a ricevere una direzione da cui non si sentano spossessati, ma arricchiti e aiutati all’incontro. A volte proprio dai giovani, con coraggio e schiettezza, possono arrivare messaggi potenti che sarebbe irresponsabile ignorare. È il caso, recente, di due giovanissime donne.

Una è la svedese Greta Thumberg, impegnata sul fronte dello sviluppo sostenibile e del contrasto ai cambiamenti climatici, oggi diventata icona di un movimento mondiale per la difesa dell’ambiente, l’altra è la diciottenne milanese Francesca Moneta, che lo scorso maggio, nel giorno della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, ha parlato nella sede del Parlamento italiano, denunciando il pericolo che i doveri fondanti la nostra convivenza civile siano messi in discussione perfino da chi riveste alte responsabilità di governo: «parole e gesti violenti, amplificati a dismisura dai social media, diffondono un clima di diffidenza e di odio nella società civile», mirando a «screditare le istituzioni democratiche nazionali ed europee», ha detto. Richiami tanto più forti anche per l’età di chi li ha espressi, e che media e social hanno contribuito a diffondere, a testimonianza del potenziale positivo della rete, quando aiuta a connettere intenzionalità positive, idealità e progetti.

Ri-costruire comunità

Una delle grandi domande dei nostri tempi consiste nell’individuare i luoghi e i processi per ri-costruire comunità, sapendo bene, tuttavia, che le community social possono offrire qualche spunto e qualche opportunità, possono rappresentare un’esperienza anche valida, possono dare prova di coesione e solidarietà, come scrive il Papa, «ma spesso rimangono solo aggregati di individui che si riconoscono intorno a interessi o argomenti caratterizzati da legami deboli». Legami forti possono nascere non tanto in base a interessi quanto piuttosto grazie a desideri e progetti condivisi.
Il poeta Jorge Luis Borges affermava che «stampando una notizia in grandi lettere, la gente pensa che sia indiscutibilmente vera». Questo è a maggior ragione vero in tempi di notizie – o pseudo notizie – gridate in Rete, che non sempre sono distinguibili dall’informazione sana e attendibile, che offre analisi, riflessione, connessioni, ricostruzione dei contesti in cui avvengono i fatti, per aiutare a comprenderli e a trarne le conseguenze.

Nell’incontro con i vescovi del Centro America, durante la giornata mondiale della gioventù di Panama del gennaio 2019, papa Francesco ha toccato, tra gli altri temi, quello della compassione riferita alla comunicazione, e ha detto: «Mi preoccupa come la compassione abbia perso la sua centralità nella Chiesa. Anche i gruppi cattolici l’hanno persa – o la stanno perdendo, per non essere pessimisti. Anche nei mezzi di comunicazione cattolici, la compassione non c’è. C’è lo scisma, la condanna, la cattiveria, l’accanimento, la sopravvalutazione di sé, la denuncia dell’eresia… Che non si perda nella nostra Chiesa la compassione».

Piacerebbe che la compassione non si perdesse nella nostra comunicazione, nella pratica politica, nell’umanità, perché proprio la compassione è una grande qualità dell’umano e un elemento prezioso per aiutare a creare legami e a costruire comunità. A volte per i giornalisti, che devono sempre essere in grado di rendere oggettiva la materia del proprio racconto, la ricerca di un equilibrio tra compassione e distacco, soprattutto quando si viene a contatto con storie di sofferenza e di dolore, è qualcosa di più che una mera ricerca stilistica, soprattutto in anni diventati difficili. Dispiace, a questo proposito, la segnalazione del Consiglio d’Europa che vede la libertà di stampa in Italia «chiaramente deteriorata nel 2018», anno in cui «la crescente violenza contro i giornalisti è «particolarmente preoccupante».

Dall’io al noi

In un mondo che si globalizza e insieme si frammenta, assistiamo a un paradosso ben messo in evidenza dal sociologo Ulrich Beck, secondo il quale l’individuo – entità “indivisibile” – diventa «il punto di riferimento, e nello stesso tempo non conta più nulla. Annega nella massa inimmaginabile dei dati (…) il paradigma passa dal “noi” all’”io” (…) La comunicazione digitale da un lato, scardinando il sistema delle identità collettive date, costringe gli individui a contare solo su se stessi. Dall’altro lato, impone loro di utilizzare le risorse presenti negli spazi d’azione cosmopolitici. (…) Ciò significa che siamo di fronte a una situazione comunicativa che dall’interno appare agli stessi attori come chiusa, mentre dall’esterno appare aperta a osservazioni di qualsiasi tipo. Ciò crea una situazione di “bolla di filtraggio” (Pariser 2011), che vede l’individuo prigioniero di un mondo digitale a misura delle sue preferenze e abitudini».

Come giornalisti dell’Ucsi continuiamo a cercare un orizzonte più ampio verso il quale volgere lo sguardo, e continuiamo a ritenere che il noi sia più importante dell’io, che la parola ragionata sia preferibile a quella gridata. Perché le parole possono essere come le pietre, che vanno usate per costruire ponti e mai per colpire, nello spirito della Carta di Assisi anche da noi sottoscritta.

Nell’udienza all’Associazione Stampa Estera dello scorso 18 maggio papa Francesco ha offerto qualche antidoto per questo tempo in cui, «specialmente nei social media ma non solo, molti usano un linguaggio violento e spregiativo, con parole che feriscono e a volte distruggono le persone». Facciamo nostro il suo invito a «calibrare il linguaggio» e, come diceva San Francesco di Sales nella Filotea, a «usare la parola come il chirurgo usa il bisturi» (cfr cap. XXIX), ricordando sempre «che ogni persona ha la sua intangibile dignità, che mai le può essere tolta».

Nella stessa circostanza il Papa ha citato la libertà di stampa e di espressione come un indice importante dello stato di salute di un Paese, invitando, in un passaggio a braccio, a non dimenticare che «le dittature, una delle prime misure che fanno, è togliere la libertà di stampa o “mascherarla”». Per questo, quando si vedono minacce alla libertà di stampa, un campanello d’allarme va sempre suonato, e non solo per un’autodifesa di categoria. Un altro campanello va suonato quando la voce e la funzione delle donne non sono considerate paritarie rispetto a quelle maschili, con un impoverimento per tutti. Davanti ai soci della Stampa Estera il Papa ha espresso un apprezzamento per le giornaliste, per la loro attenzione nel raccontare la vita, poiché le donne, ha detto, «vedono meglio e capiscono meglio, perché sentono meglio». Nello specifico di un sentire femminile da cui discendono una capacità di sguardo, di comprensione, di parola, talvolta di compassione, c’è una grande potenzialità che talvolta fatica ad emergere e ad avere riconoscimento, e non solo per responsabilità delle donne.

Da parte nostra, donne e uomini dell’Ucsi, continueremo a cercare le strade più adatte per «impedire di smerciare il cibo avariato della disinformazione» e offrire invece «il pane buono della verità». Non sempre sono strade asfaltate, più spesso assomigliano ai sentieri di montagna. Quello giornalistico, benché altamente tecnologizzato, rimane un lavoro artigianale, e alla fine, comunque vada, ci piacerebbe fare nostri i versi del poeta portoghese Fernando Pessoa: «Ne è valsa la pena? Tutto vale la pena/ se l’anima non è piccola» (Mar português).