Padre Pino Puglisi: un profeta dei nostri tempi

SE OGNUNO FA QUALCOSA SI PUO' FARE MOLTO

Nei giorni delle minacce, padre Pino Puglisi si trovò al tavolo di una pizzeria con i suoi collaboratori. La paura si toccava con mano dopo gli attentati. A fine giugno 1993 erano state incendiate nella stessa notte le porte di casa di tre volontari del Comitato intercondominiale di Brancaccio.

Il parroco aveva subito telefonate e lettere anonime, un’aggressione fisica, gli avevano danneggiato l'auto. Una molotov era stata lanciata davanti alla chiesa. Anche io e mia moglie, che lo conoscevamo da 15 anni fin dai banchi del liceo, lo avevamo visto di mese in mese sempre più preoccupato e dimagrito, il suo famoso sorriso era come incrinato. Per il suo compleanno gli avevamo comprato una segreteria telefonica per poter filtrare quelle telefonate con minacce di morte che arrivavano nel cuore della notte. Non gli diedero il tempo di usarla. I mafiosi lo uccisero proprio la sera del 15 settembre di 30 anni fa.

Padre Pino doveva battezzare nostro figlio Emanuele e ci metteva fretta ogni volta che ne parlavamo: “Dobbiamo battezzarlo subito, subito”...L’ultima volta è successo di domenica alla fine della messa, tre giorni prima del delitto che avvenne di mercoledì. Lui aveva capito che gli era rimasto poco tempo. Avevamo fissato la data del battesimo per i primi di ottobre nell'agenda della parrocchia, non abbiamo fatto in tempo.

Torniamo a quella sera in pizzeria. Padre Puglisi prese un pacchetto di stuzzicadenti, di quelli cilindrici, di plastica. Ne tirò fuori uno e disse a un amico: «Spezzalo!». E quello lo ruppe. Poi ne prese due insieme e disse: «Spezza questi due». E quello li spezzò con le mani. Infine padre Puglisi prese il mucchio degli altri stuzzicadenti e concluse: «Ora prova a spezzare tutti questi insieme!».

Insomma, voleva dire con un semplice esempio: l’unione fa la forza, stiamo uniti, non facciamo dilagare il panico. Per dirla con la sua frase più famosa che è diventata il titolo del mio libro: "Se ognuno fa qualcosa, si può fare molto". Per questo la mafia dovette fermarlo, il 15 settembre del 1993: un sacrificio da ricordare. Per i 25 anni c'è stata la visita a Palermo di Papa Francesco, per i 30 anni il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, con tutti i vescovi siciliani lo ha commemorato in Cattedrale.

UN PRETE CHE SAREBBE PIACIUTO A PAPA FRANCESCO

Cosa stava succedendo nel 1993 di tanto pericoloso per la mafia? La gente di Brancaccio si stava unendo, cresceva una nuova cultura della legalità illuminata dalla fede: ancora poco tempo e nessuno sarebbe più riuscito a spezzare la schiena ai volontari. «Non dobbiamo tacere», diceva don Pino a noi parrocchiani. E aggiungeva, citando San Paolo, "si Deus nobiscum, quis contra nos?". Se Dio è con noi chi sarà contro di noi?

La mafia ebbe paura del fatto che «si portava i picciriddi cu iddu» (i bambini con lui) e «predicava tutta a iurnata» (predicava tutto il giorno). Parole del boss Leoluca Bagarella, il capo dei capi nel 1993 dopo la cattura di Totò Riina, suo cognato, riferite da collaboratori di giustizia nei processi. Questo era già sufficiente alla mafia per toglierlo di mezzo e proseguire sulla via della violenza e dei “pìccioli”, il denaro in dialetto, espressione che Papa Francesco ha voluto utilizzare durante la sua omelia del 15 settembre 2018 davanti a 100 mila persone a Palermo.

Ma non solo. Don Pino aveva sbarrato la strada ai politici collusi del quartiere, aveva vietato le feste che servivano solo ad omaggiare il potere dei boss, aveva cambiato il percorso delle processioni per non dover fare «l’inchino» sotto i balconi dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, condannati in via definitiva come mandanti del delitto. Non a caso, incontrando il clero in cattedrale, il Papa ha proprio chiesto di mantenere alta l’attenzione sui percorsi delle processioni per evitare questi “inchini”. Don Pino lo faceva già agli inizi degli anni Novanta.

Credeva nello Stato e allo Stato chiedeva una scuola media, servizi per il quartiere, uno spazio per gli anziani, impianti sportivi. Nel quartiere, però, in quell’epoca non si muoveva foglia senza il permesso dei boss e il territorio era a loro disposizione. Un solo esempio: gli scantinati di via Hazon, che don Pino voleva utilizzare per creare la scuola, ospitarono l’esplosivo destinato a Paolo Borsellino. Anche Totò Riina, intercettato in carcere, sottolineò come don Pino contendesse il territorio palmo a palmo alla mafia. «Tutte cose voleva fare iddu – disse Riina –, la nuova Chiesa, il campo, i giochi per i picciriddi, ma noi gli dicevamo tu fatti i fatti tuoi, ma tu fatti u parrinu». Don Pino invece non si faceva i fatti propri, non lavorava all’ombra del campanile ma andava a cercare le sue pecorelle nei tuguri, nei vicoli.

Un parroco scomodo e povero, di periferia, che oggi Francesco addita a modello per tutti i sacerdoti sottolineando che «non viveva di appelli antimafia», cioè non cercava passerelle e interviste, ma operava nel concreto, producendo fatti e non parole. Consumando la suola delle scarpe e conoscendo l'odore delle sue pecore.

Don Pino è stato anche profetico nell’analisi del fenomeno mafioso. Prima ancora dell’anatema di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi (maggio ’93), in una relazione che ho inserito nel mio volume, definì Cosa Nostra un fenomeno satanico, una religione della violenza, una struttura di peccato. Composta da uomini che si fingono religiosi solo per accrescere il proprio potere e hanno messo il Padrino al posto del Padre.
Papa Francesco, anni e anni dopo, ha ribadito questi concetti, in particolare nel giugno 2014 in Calabria, con la scomunica degli appartenenti alla criminalità organizzata. E nel 2018 a Palermo è andato oltre, con una chiarezza esemplare: «Non si può credere in Dio ed essere mafiosi». Concetti ribaditi altre volte e infine anche nella lettera che il Pontefice ha mandato poche settimane fa alla diocesi di Palermo.

LA CAUSA DI BEATIFICAZIONE

Pochi mesi dopo aver benedetto le nostre nozze, padre Puglisi nel 1990 era diventato parroco a Brancaccio, il quartiere dove era nato. Altri sei sacerdoti avevano rifiutato l'incarico prima di lui. Me lo disse con una battuta delle sue: "Sono diventato il parroco del Papa": si riferiva a Michele Greco, un boss dell'epoca che risiedeva nel territorio parrocchiale e amava farsi chiamare "il Papa della mafia".
Io e mia moglie, pur non abitando nella borgata, lo avevamo subito seguito per amicizia e solidarietà, cercando di dare una mano nelle innumerevoli attività che in poco tempo aveva avviato. Non pensavamo di fare niente di eroico ma furono tre anni formidabili che ci hanno dato la carica per tutta la vita. Sì, come nella canzone: i migliori anni della nostra vita.

"Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?". Evidentemente i senza Dio o gli oppositori di Dio. Sta proprio in questa frase l’inizio della riflessione che ha condotto alla conclusione positiva nel maggio 2013 della Causa di beatificazione, di portata storica: don Puglisi è infatti la prima vittima di mafia di cui viene riconosciuto il martirio cristiano. E la causa è la prima - nella storia della Chiesa - in cui vengono utilizzati verbali di collaboratori di giustizia, atti di processi di mafia, ricostruzioni della magistratura sul periodo tra il '92 e il 93, crocevia delle stragi Falcone e Borsellino ma anche degli attentati alle chiese di Roma, a Firenze e Milano.

Il postulatore, mons. Vincenzo Bertolone (col quale ho collaborato a lungo nel lavoro di ricerca, mi è stata anche chiesta una testimonianza giurata da allegare agli atti) è riuscito a dimostrare come - col rituale di sangue dell’affiliazione, la "punciuta" del dito - i mafiosi di fatto rinnegano il battesimo cristiano. Scelgono di essere i rappresentanti di un’altra religione o meglio di una setta. Usurpando rituali e formule cristiane, la mafia crea un proprio sistema di potere, con l'abilità di ammantarsi di forme di religiosità esteriori che vengono utilizzate per rafforzare il proprio dominio e l'influenza del clan sul territorio (vedi anche il già citato inchino). Stesso discorso per l'uso dei santini (da bruciare per il rito di iniziazione) o delle Bibbie trovate in molti covi, tra cui quello di Bernardo Provenzano. Anche Matteo Messina Denaro quando è stato catturato aveva un'immaginetta sacra nel portafoglio.

In questa maniera si è superata una delle difficoltà della Causa: don Puglisi venne ucciso da mafiosi che solo formalmente risultano cristiani e battezzati nella sua stessa chiesa a Brancaccio. Questo è il principio stabilito dalla Chiesa che ha portato alla sua beatificazione: mafia e Vangelo sono incompatibili, non si può essere insieme mafiosi e cristiani. Se i mafiosi uccidono un cristiano per far tacere la voce della sua fede, la vittima è un martire come le vittime del nazismo e del franchismo, come i missionari trucidati in Africa.

Sulla mafia padre Pino aveva le idee molto chiare. Nel mio libro riporto tutti i suoi scritti più significativi ed ecco una sua frase illuminante sull'essenza anti-cristiana del fenomeno: "Nella mafia si può riconoscere una di quelle strutture di peccato di cui parla Giovanni Paolo II nella Sollecitudo rei socialis (n. 36), cioè quelle realtà peccaminose che partendo dalla responsabilità dei singoli si allargano, si consolidano, si stabilizzano come un peccato diffuso e diventano situazioni condizionanti la libertà o la condotta degli altri». E ancora: «Quella mafiosa non è solo una società (clan o cosca o famiglia), è a suo modo una cultura, un’etica, un linguaggio, un costume. Malgrado tutte le sue mimetizzazioni, si tratta di una cultura anti-evangelica e anti-cristiana, addirittura, per certi aspetti, satanica: essa stravolge termini che indicano valori positivi e cristiani come famiglia, amicizia, solidarietà, onore, dignità. Li carica di significati diametralmente opposti a quelli cristiani allo scopo di dominare con la prepotenza, la complicità, l’asservimento e il disprezzo dell’altro, il diritto-dovere di farsi giustizia da sé».

Così si è giunti, con la beatificazione, a riconoscere che abbiamo avuto tra noi, a Palermo, un nuovo profeta. Padre Puglisi ha donato alla sua Chiesa una maturazione di coscienza, una diversa e più avanzata valutazione del pericolo che rappresenta la mafia. Col suo sangue ha lavato silenzi, sottovalutazioni e coabitazioni del passato. E se la Chiesa, tutta la Chiesa, saprà fare propria questa lezione, allora per davvero la figura del piccolo prete di Brancaccio, caduto sotto i colpi della violenza omicida, non porterà più su di sè i segni cruenti della sconfitta, ma le stimmate di una dignità feconda, carica della forza della risurrezione e del futuro.

* L'autore (nel riquadro il giorno del suo matrimonio celebrato da don Puglisi) è socio Ucsi di Palermo, caporedattore del Giornale di Sicilia, amico e biografo del sacerdote

Ultima modifica: Dom 10 Set 2023