Scandali e scommesse, il volto di un calcio narciso

Dunque, ecco il nuovo scandalo: le scommesse dei calciatori. Tutti ci meravigliamo e ci strappiamo le vesti, inorriditi dalle giovani promesse del calcio che in teoria hanno tutto ciò che di materiale potrebbe servire per condurre una vita agiata e che sembrano strozzarsi con le proprie mani.

Anche il sistema mediatico, inseguendo le rivelazioni di Corona che detta l’agenda, corre dietro ai nomi. Chi sarà il prossimo? E via di ipotesi, totonomi, voci di corridoio, rivelazioni della “fonte di Corona”, in una schizofrenica rincorsa a chi esce prima...

C’è, in questo nostro modo di accostarsi e di raccontare l’ennesima vicenda di immoralità e di caducità umana, la cifra della nostra civiltà: l’incapacità di analizzare i fenomeni nella loro profondità, indagando le cause che non intendono proporsi come una giustificazione per quello o per quell’altro atleta, ma semplicemente in qualità di una chiave di lettura diversa, in grado di fornire, oltre ad argomenti per il gossip, anche qualche strumento utile per affrontare la realtà.

Dicevamo: questi ragazzi hanno tutto, perché si riducono così? Già, ma tutto, ed anzi troppo, di cosa? C’è un salmo molto bello che, anche interpretato in un’accezione laica, ci suggerisce una visione: “ma l’uomo nella prosperità non comprende”. Avere tutto e anche di più in termini di denaro, di materia, di abbacinanti abbagli mondani a volte – non sempre, lungi da noi il generalizzare – significa non avere niente del resto. Che si traduce nel vuoto dell’anima, in una disperata ricerca di senso da riempire costantemente con qualcosa: e se uno non conosce altro che la materia quale soluzione dei problemi, proverà a colmare questa sete continua con oggetti, cose, esperienze che rechino appagamento tanto immediato quanto effimero; più esso è breve e prima va ripetuto, come in un circolo vizioso che si reitera, contorcendosi su se stesso nel tentativo di trovare risposte rapide e semplici a problemi che, ahimè, nascono da lontano e affondano le radici altrove.

Ma allora, anziché interrogarci su chi sarà il prossimo, in qualità di giornalisti che per deontologia cercano di andare alla sorgente dei fatti e delle notizie, dovremmo chiederci il perché ci sarà sicuramente un prossimo. E poi un altro e un altro ancora ed infine un intero mondo – quello del calcio – ammantato di scintillanti luci, spente le quali non rimangono però che le tenebre dell’ipocrisia.

Non è raro, infatti, che fin da piccolissimi nelle società calcistiche dilettantistiche i ragazzi si trovino a vivere esperienze totalizzanti: calcio, calcio e calcio. Se sei forte, già a sei o sette anni hai gli occhi addosso degli osservatori e delle società più blasonate, per poi diventare oggetto del desiderio dei procuratori. Ma il problema non sarebbe neppure questo, se solo questi calciatori in erba non si sentissero spesso dire che il fine settimana non c’è spazio per altro, perché bisogna essere disponibili per giocare una o, all’occorrenza, due partite ogni weekend. Ad esse si sommano i match da guardare in tv o allo stadio, le cosiddette “partite spezzatino” che occupano ogni benedetto giorno della settimana, dal lunedì al giovedì tra campionato e coppe, per ricominciare il venerdì con l’anticipo dell’anticipo e così via. È un calcio che, come ogni buon narcisista, prevede solo se stesso e si convince della bontà di questa impostazione specchiandosi nella propria vanità.

Vuoi fare esperienze educative diverse con associazioni e movimenti che propongono vita di comunità e momenti di condivisione? Vuoi andare a Messa? Vuoi provare a conciliare lo sport calcistico con altre attività, che ti aprano orizzonti di umanità inesplorati? Niente da fare, per come è concepito il calcio moderno questo novero di possibilità non è contemplato. E non sto addossando specifiche responsabilità ai singoli sodalizi sportivi locali, che spesso vedono affiatati gruppi di volontari spendersi con passione per la causa, ma alla concezione stessa del calcio che esaspera uno sport in cui il tintinnio dei soldi ed i richiami della vanagloria hanno sostituito l’ingenua e sconfinata bellezza di una palla che rotola su un prato verde.

Senza scomodare Maritain, che ci ricorda come soltanto l’umanesimo integrale possa coltivare con equilibrio tutte le dimensioni dell’umano, né dover risalire alla saggezza degli antichi che, attraverso la satira decima di Giovenale, ribadiscono quanto il motto “mens sana in corpore sano” sia la risposta compiuta alla fugacità e all’illusione del dominio della sola materia, ci pare evidente che, se nel percorso di formazione della personalità di un ragazzo, ci metto solo calcio, inteso principalmente nella sua chiave di ricerca di successo, e ad esso sommo in età preadolescenziale un bel cocktail di tik tok e chat di whatsapp poco controllate da famiglie troppo indaffarate in altre faccende, beh, le scommesse non sono altro che la logica conseguenza di un disequilibrio. Quello per cui da piccolo devi essere già grande sul terreno di gioco ma puoi rimanere in tutto il resto fanciullo viziato ed insicuro, impegnato a mascherare le proprie fragilità con un goal o un selfie dietro ai quali mancano i fondamentali, non tanto della tecnica calcistica, quanto quelli ben più solidi dello spessore umano.

Qualche domanda in meno a Corona su chi sarà il prossimo e qualche interrogativo antropologico in più, posto con onestà intellettuale a noi stessi, forse ci aiuterebbe ad approcciarci agli avvenimenti – e alla loro narrazione – con un pizzico di lungimiranza in più, capace di immaginare una luce nel buio e di accendere una fiammella di speranza proprio laddove essa appare confusa e appannata dagli enigmi di assurde scommesse, che sacrificano sull’altare dell’adrenalina e dell’emozione dell’attimo non solo cospicui denari ma anzitutto la propria felicità...

Ultima modifica: Mar 24 Ott 2023