Elezioni 2018: la tv ancora centrale nella comunicazione politica. Per i social c'è tempo...
Nel 2013, prima delle ultime elezioni politiche, il Centro di ricerche e servizi sulla comunicazione (CiCo) dell'Università di Pisa, coordinato da Adriano Fabris, aveva condotto un'analisi approfondita di quella campagna elettorale. "I risultati - dice ora il prof. Fabris al nostro sito - erano stati molto interessanti, perché avevano ribaltato l'idea molto diffusa che il web potesse prendere il sopravvento sulla televisione e sulle piazze". Di nuovo però adesso c'è davvero poco, ed è per questo, spiega, che quell'analisi non è stata ripetuta cinque anni dopo.
Non c'è proprio nessuna differenza?
"Almeno non in senso innovativo e positivo, per quanto riguarda la comunicazione. La tv resta centrale e le reti sociali sono ancora subordinate. E stavolta non c'è stato spazio neppure per un confronto vero e diretto tra i candidati"
Sulla televisione dunque si svolge ancora gran parte del dibattito pubblico. Per quanto tempo accadrà ancora?
"L'Italia non è ancora un paese per giovani; finché i candidati saranno questi (con la loro storia e con la loro riconoscibilità soprattutto nelle fasce di età più anziane) è naturale che la campagna elettorale si svolga soprattutto in televisione. La tv continuerà ad essere al centro, per ora è fallito (in gran parte) il ricambio generazionale che avrebbe portato forse a qualche novità".
In questo scenario, sostanzialmente immutato, serve ancora una 'par condicio' imposta per legge solo a radio e tv?
"Penso di no, perché è un modo per affrontare problemi etici, cioè qualitativi e valoriali, attraverso uno strumento quantitativo, quello del calcolo del tempo concesso agli uni o agli altri.
L'agenda dei temi la dettano sempre i grandi giornali?
"Solo nella misura in cui i loro lettori sono i politici o a loro volta altri giornalisti. C'è un'autoreferenzialità evidente, non penso che la gente si interessi molto di tutto questo".
I social spostano voti? O rafforzano solo le convinzioni di chi vi è immerso?
"E' evidente che sono anche delle 'bolle' in cui ciascuno di noi si trova rinchiuso, e questo può alimentare le contrapposizioni con l'esterno, con gli altri gruppi. Il loro ruolo certamente dipende dal modo in cui si usano. Potrebbero essere un vero volano per la democrazia, ma spesso non lo diventano per come (soprattutto Facebook e Twitter) vengono utilizzati".
Quali motivazioni etiche deve avere il giornalista che racconta la politica?
"Dobbiamo preoccuparci della qualità e dei contenuti, piuttosto che della forma. E talvolta di contenuti non ne vediamo molti in giro, perché la campagna si gioca soprattutto sulla figura del leader che si contrappone ad altri leader. Allora penso che il giornalista, se è eticamente motivato, può cercare di far capire i contenuti nel dibattito pubblico e dare più spazio ad essi, anche a costo di far saltare la misura quantitativa della 'par condicio'. Renderebbe così un grande servizio alla collettività".
E' davvero la buona comunicazione a decidere un'elezione?
"Credo che ormai le persone si siano talmente assuefatte a certe modalità comunicative che in molti casi provino disincanto e indifferenza verso chi comunica il messaggio e per il modo in cui lo fa. Occorrerebbe invece ricordare sempre che questa possibilità di votare è una conquista preziosa, ci è stata data da chi è morto nella Resistenza e dai padri costituenti; proprio questo forse potrebbe spingere anche i nostri giovani ad impegnarsi di più".