Quando l'io diventa noi. 50 anni di Sermig

In questi giorni il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha visitato (ed è la terza volta, lo vediamo nelle foto) l’Arsenale della Pace del Sermig, a Torino. Per #deskdelladomenica vi proponiamo in anteprima la lunga intervista che abbiamo realizzato al suo fondatore per l’ultimo numero di Desk.

Intervista a Ernesto Olivero

di Roberta Leone Matteo Spicuglia

Olivero, il Sermig nasce negli anni Sessanta in una zona "difficile" di Torino. Come ha costruito, come è cresciuto in 50 anni e qual è oggi il rapporto con la città? E come la città ha dato forma al carisma del Servizio Missionario Giovani?

Il legame del Sermig con Torino è stato ed è decisivo. Torino è la città in cui siamo nati, in cui siamo cresciuti, in cui abbiamo anche sofferto. L’abbiamo vista cambiare, affrontare le sue contraddizioni, ricercare identità nuove. Posso dire che la prima immagine di quegli anni che ricordo è quella di una città operosa, dove però si leggevano anche cartelli con scritto: “Non si affitta ai meridionali”. L’arrivo di tanta gente dal Sud creò tensioni profonde.

Il secondo aspetto invece riguardava quel momento storico, gli anni della contestazione che sfociarono anche nel terrorismo. Nel mondo giovanile e anche nei gruppi cattolici, chi non si schierava non contava nulla. Dovevi prendere posizione e soprattutto avere un nemico contro cui combattere. Io però sentivo che non era quella la strada. Volevo essere semplicemente cristiano, dialogare con tutti, vivere la pace che passa dalle opere di giustizia, vedere nel volto dell’altro una persona come me. Le etichette di quegli anni erano troppo strette per contenere degli ideali grandi. Torino in questo ci è stata maestra perché ci ha portato in casa i suoi problemi, situazioni che all’inizio non eravamo capaci di affrontare. Chi avrebbe immaginato di avvicinare assassini, ex terroristi, persone scartate dalla vita? Così, giovani segnati dalla droga, dall’Aids, dalla prostituzione, dallo sfruttamento? Solo il campanello che suona giorno e notte, solo la scelta intima di vedere in ogni situazione un appuntamento con Dio, ci ha portato a conoscere il mondo così com’è e a riscoprire in noi e negli altri la speranza. Speranza che non è mai dire: “Che pena!”. Ma piuttosto: “Io, cosa posso fare?”

Il Sermig si è diffuso negli anni in altre periferie urbane: San Paolo, Madaba, etc.. C'è un modello di coesione sociale che avete esportato?

Penso di sì. Ricordo gli anni del terrorismo, il dramma di una città in cui le persone avevano paura anche ad uscire di casa. Noi ci inventammo i pomeriggi della speranza, degli incontri di silenzio e preghiera nelle piazze. Era un modo molto concreto per creare coesione e unione nella città divisa e impaurita. Fu un primo seme. Poi, quando ci fu affidato il vecchio arsenale della città, il 2 agosto del 1983, arrivarono anche nuove sfumature. Nella riconversione dei ruderi della fabbrica di armi, nel fiume di bene che ho visto all’opera, mi sono reso conto che il vero incontro può avvenire solo nel campo della bontà.

Puoi essere cristiano o di un’altra religione, un non credente, ma chi ti impedisce di commuoverti di fronte ad una situazione di difficoltà? Quando il bene si esprime così, molte barriere cadono. L’abbiamo visto in Giordania, dove l’Arsenale dell’Incontro accoglie bambini e ragazzi disabili sia cristiani che musulmani senza distinzione. Stessa cosa in Brasile, dove l’Arsenale della Speranza di San Paolo è casa ogni notte per oltre 1200 uomini di strada. In una metropoli la segregazione delle classi sociali è terribile. Sei povero? È colpa tua, diventi uno scarto. Noi abbiamo voluto aiutare questi uomini a riscoprire la loro dignità, a capire che possono restituire anche loro qualcosa. Ci siamo inventati l’iniziativa “Una foresta che cresce”. Ogni settimana, i poveri dell’Arsenale promuovono azioni di bene nel quartiere: c’è chi pulisce una strada, chi un giardino di una scuola, chi visita un centro per anziani. Tutto questo ha aiutato tanti a superare certi pregiudizi. Una goccia nel mare che dà tanta speranza.

Nell'esperienza del Sermig, come si fa la coesione sociale, quali sono i soggetti, da dove si comincia?

Si parte sempre dalle persone, mai dalle strutture o dai progetti creati a tavolino. Questo significa mettere da parte una visione della realtà ideale o sentimentalistica. L’Arsenale per esempio, accoglie da decenni migliaia di persone da ogni angolo del mondo, italiani e stranieri. Ma non è stato facile. Abbiamo dovuto misurarci, soprattutto all’inizio, con problemi veri, con modi opposti di intendere certi valori. Abbiamo capito che servivano regole e anche una certa severità nel far rispettare i principi della nostra società e della Costituzione. La coesione sociale non si improvvisa. Anche per questo a un certo punto abbiamo deciso di creare un asilo e un oratorio multietnico, per aiutare le nuove generazioni a vivere insieme. E i frutti ci sono!

Penso ad un altro episodio che ci ha cambiati la vita: la conversione di Pietro Cavallero, uno dei banditi più feroci del secolo scorso. Visse gli ultimi anni della sua vita all’Arsenale, dove decise di cambiare nel profondo e di chiedere perdono ai famigliari delle sue vittime. Alcuni accettarono di incontrarlo, altri no, ma Pietro morì da persona riconciliata, consapevole del male causato. Oppure, ricordo la prima lettera ricevuta all’Arsenale, quella di Claudio Carbone, un terrorista che a nome delle Brigate Rosse chiedeva di dialogare con noi. Iniziò un cammino che portò alcuni ex brigatisti a tagliare in modo netto con il passato. Tutto questo però avviene solo nella chiarezza, senza ambiguità.

Partire dalle persone e darsi delle regole. Il Sermig, per esempio, ha creduto in una cultura della trasparenza economica ben prima che il tema esplodesse in sentimenti di antipolitica e di sfiducia nelle istituzioni...

Certamente, ma si parte anche in questo campo dalle persone. Se decido di vivere di Provvidenza, il denaro è sacro. E se una persona vuole darmi i suoi soldi deve avere la certezza che nemmeno un euro venga sprecato. Al Sermig siamo inflessibili su questo. Arrivi all’Arsenale con cento, dieci, un euro? Sarai tu a dirci come spenderlo. La trasparenza è uno stile e anche la garanzia per non montarsi la testa. Riprendendo una espressione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dare spazio a Dio in questo campo, è come sentire di avere un azionista di maggioranza a cui non è possibile nascondere nulla. Solo questo stile dà credibilità e fa sentire la gente a casa.

In che posizione può porsi una comunità cristiana che vuol fare rete in un contesto sempre più polarizzato?

Credo che i cristiani debbano tornare a sentire la responsabilità di un esempio, anche sociale. Se penso alle prime comunità, vedo che il messaggio di Gesù era attrattivo anche perché la gente vedeva che i cristiani si volevano bene, si stimavano, facevano di tutto per cambiare le cose. Per me oggi un buon cristiano (ma anche un buon musulmano, un buon ebreo, un buon non credente) dovrebbe essere in automatico anche un buon cittadino. Dovrebbe pagare le tasse, fermarsi al rosso, vivere in modo sobrio, far entrare gli altri nella propria vita. Se un cristiano si impegna in politica non dovrebbe rubare, se diventa prete dovrebbe essere santo o niente, se diventa un economista dovrebbe trovare il modo di combattere le disuguaglianze, se diventa un imprenditore dovrebbe avere la gioia di creare lavoro. Cristiani così convertirebbero il mondo, creerebbero città più armoniche, in cui nessuno si senta solo. Questo non sempre avviene, ma quello che non è stato può essere.

Al Sermig amate dire “è possibile!”, e dalla vostra avete oltre 50 anni di fatti. Ci dia alcune parole, un glossario di base a marchio Sermig, per l’impegno sociale nelle città.

Prendo spunto dalla nostra Regola. Ci si impegna veramente quando l’io diventa noi, quando si sceglie di fare felici gli altri, di condividere gioie e dolori, di essere custodi gli uni e gli altri. Quando al primo posto mettiamo il bene fatto bene, la certezza della speranza, i piccoli che fanno cose grandi, la bontà che disarma, il problema dell’altro che diventa mio. Così, l’imprevisto accolto e il diverso capito. Se poi siamo credenti, c’è una sintesi molto semplice: amare con il cuore di Dio, perché amati, amiamo.

Di lei c’è una bellissima foto in bianco e nero, al centro dell'Arsenale della guerra ancora diroccato. Ha raccontato che lì vedeva il Sermig "già fatto". Dove vanno le nostre città? Cosa vede per il futuro?

Non sono un indovino, ma posso dire però che il nostro è uno dei momenti più difficili della storia dell’umanità. Vedo molte incertezze, molte fatiche, l’incapacità di seguire ragionamenti invece che l’istinto o la pancia. Facciamo così perché in fondo la pancia semplifica, rassicura, ti fa credere che sia sufficiente individuare un nemico per stare meglio. Non è così. L’ho visto all’Arsenale, l’ho visto di fronte a problemi che sembravano insormontabili. La pace si costruisce da artigiani. Richiede impegno, studio, disponibilità a ripartire sempre. Oggi mi preoccupano soprattutto i giovani. Conosco i loro sogni e le loro potenzialità, ma anche i loro limiti. Tanti, troppi, si perdono ancora dietro la droga, dietro dipendenze infami. Perdono tempo e non si rendono conto che per far vincere il bene bisogna impegnarsi 24 ore su 24, proprio come chi sceglie il male. Come diceva frère Roger, fondatore della comunità di Taizé, basta un pugno di giovani per cambiare il corso della storia di una città, di un Paese, in definitiva del mondo. All’inizio del Sermig queste parole ci hanno guidato e oggi dopo tanti anni, posso dire che frére Roger aveva ragione: io e il mio gruppo di amici di allora un pezzo di mondo lo abbiamo cambiato. Forse anche noi stessi. Ma nella normalità assoluta, senza trionfalismi. Possono farlo tutti.

Raccontarle, le città. Un rapporto con la stampa non sempre facile. Come può il giornalismo raccontare un lavoro silenzioso, ordinario, di coesione sociale? È noto il servizio de Le Iene sul Sermig, ma come si racconta, oltre la notiziabilità, una foresta che cresce nel silenzio?

È una sfida molto difficile. Di certo non mi lamento, ma spesso dico che se il Sermig fosse quello raccontato dai giornali, molto probabilmente saremmo inesistenti. Eppure, i nostri numeri parlano da soli. Qualcosa non funziona! I brasiliani dicono che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. È vero e per certi aspetti è anche comprensibile. Io credo che quella dei giornalisti sia una delle poche categorie morali rimaste. Ma in diversi frangenti non hanno dato l’esempio. In una frase io dico che un giornalista che vuole servire la pace dovrebbe semplicemente rientrare in se stesso, cercare e trovare una notizia, comunicarla al mondo, senza aggiungere altro.

Chi fa questo lavoro conosce le difficoltà, i condizionamenti, anche i problemi legati alla crisi dell’editoria. L’approccio però dovrebbe essere sempre onesto, semplice, anche a costo di pagare di persona. Il bene esiste, io lo vedo ogni giorno. Vedo la fatica che tanta gente fa per provare a costruire un mondo diverso. Questo bene aspetta solo di essere raccontato. Sogno mille e mille giornalisti di pace pronti a farlo con più coraggio, a mettere da parte letture in bianco e nero, a saper cogliere le tante sfumature di un problema. C’è una sfida professionale ma anche educativa da cogliere. Io ci credo.

Foto: www.quirinale.it

Ultima modifica: Sab 1 Dic 2018