Sì, ci voleva proprio il beneficio del dubbio (anche nei media)

Quanto contano le rappresentazioni che facciamo degli altri, oltre a quelle che ci facciamo sui noi stessi? Tanto, soprattutto quando sono basate su stereotipi, se non su veri e propri pregiudizi. È solo una delle (tante) considerazioni che vengono in mente leggendo “Il beneficio del dubbio. La mia storia”, scritto da Rudy H. Guede con il giornalista e scrittore Pierluigi Vito(Augh! Edizioni, 2022).

Rudy Guede ha cominciato a scrivere questo libro mentre si trovava in carcere a Viterbo, per scontare una pena a 16 anni comminatagli a seguito dell’assassinio di Meredith Kercher, il primo novembre 2007 a Perugia. Con una sentenza che lascia molti dubbi, perché è stato condannato non come autore dell’omicidio, ma come complice, solo che non si sa di chi. Come sintetizza lui, «il carcere l’ha dovuto scontare una persona che non si capisce colpevole di cosa – perché nessun giudice mi ha indicato come autore materiale del delitto – e con chi: un condannato impossibile! O forse il condannato ideale: il negretto senza famiglia, senza le spalle coperte, senza un soldo».

In fondo, è per questo che il libro è nato: per raccontare come una vita può deragliare, senza che il protagonista riesca a capire come è successo. Guede racconta la sua vita da quando, bambino, fu portato in Italia, lasciando la madre ma senza davvero trovare un padre; racconta come diverse persone lo abbiano accolto e fatto sentire a casa, nonostante tutto; come crebbe tra la passione per il basket e il bisogno di amicizie e affetti.

E poi, naturalmente racconta di quella notte, quando – appena ventenne – si trovò nella casa del delitto. La paura, la confusione, gli errori – madornali – che commise. La solitudine di cui si sentì avvolto. Guede è colpevole, è solo confuso e ingenuo, è innocente? Confrontandosi con il racconto, ognuno si farà la propria idea. Ma soprattutto si convincerà che effettivamente avrebbe avuto anche lui diritto a quel beneficio del dubbio che non gli è stato concesso.

Anche se non portano necessariamente a risposte certe, i dubbi aiutano ad essere più giusti. In questo caso, i dubbi avrebbero dovuto nascere tra i magistrati, ma anche nel mondo dell’informazione: questo fu dall’inizio uno di quei casi mediatici che appassionano la stampa non solo italiana, ma anche internazionale. E televisioni, giornali e siti cominciarono ben presto a raccontare una storia che non era la sua, dipingendolo come un ladro incallito, tossico, delinquente. «Quando tornavo in carcere, la sera», racconta Guede, «ascoltavo i telegiornali e a bocca aperta pensavo: ma non stanno parlando del mio processo!... Per questo ho maturato la convinzione che se la mia vicenda è andata come è andata, allora c’è una ragione che non risiede nelle aule del tribunale». Certamente anche i media hanno contribuito a far sì, che a lui non venisse riconosciuto quel beneficio del dubbio che è stato determinante per le altre persone coinvolte nell’omicidio di Meredith.

Così come è andata, questa è una storia che, come scrive il criminologo Claudio Mariani, miete solo vittime.

Dal 2021, grazie a uno sconto di pena, Rudy Guede è un uomo libero. In carcere ha studiato e si è laureato, lavora, cammina a testa alta. A fargli bene non è stato il carcere, ma la sua personale determinazione («il carcere non ti dà niente. Sei tu che devi provare a ricavare da un’esperienza del genere quello che più puoi») e le persone che ha incontrato: i volontari dell’associazione Gavac (Gruppo Assistenti Volontari Animatori Carcerari) e dell’Arci, soprattutto. Le voci di queste persone entrano nel libro parlano, anch’esse, in prima persona. E ci dicono che, davvero, la speranza è l’ultima a morire.

Nel riquadro un particolare della copertina del libro

Ultima modifica: Gio 1 Dic 2022