Siamo tutti migranti. Ma dei bambini, spesso, non si conosce niente

Per #deskdelladomenica ecco un altro articolo tratto dal numero 4/2017, in attesa che si completi la distribuzione di "Raccontare la Giustizia", appena pubblicato.

«Siamo tutti migranti» (Papa Francesco a Napoli, marzo 2016)


I bambini venuti d’altrove in Italia sono una sfida. Anche comunicativa. In senso lato. In un Paese come il nostro, storicamente segnato da un destino di massiccia emigrazione ̶ interna e verso l’estero ̶ le loro storie di immigrazione sono infatti un fenomeno relativamente nuovo. Ma ineludibile, se si considera solo il fatto che da nord a sud vive circa un milione di bambine e bambini provenienti da 180 Paesi del mondo: in media, il 10,6% dei minorenni residenti, come ci ricorda con dovizia di dati anche l’ultimo Atlante dell’infanzia a rischio 2016. Bambini e supereroi.

Perché è soprattutto dagli anni ‘80 che l’Italia si è scoperta all’improvviso «meta del viaggio e dei sogni di altri, uomini e donne che hanno lasciato la propria terra per cercare qui condizioni di vita migliori, sfuggendo spesso alla fame e alle carestie, alle persecuzioni e alla guerra», sottolineano opportunamente le pedagogiste Graziella Favaro e Tullia Colombo in una ormai introvabile ma utile “mappa” per orientarsi nel mondo dell’infanzia migrante nel nostro Paese: I bambini della nostalgia[2]. Definizione ̶ i bambini della nostalgia ̶ densamente evocativa, a connotare una dimensione problematica ma anche un approccio ermeneutico al mondo dell’infanzia e alle sue molteplici “letture”, già intese come multietniche e pluriculturali, sia sul piano dell’immaginario sia su quello, concreto, della cultura materiale nella quotidianità: a casa. Tra i banchi di scuola. E per strada.

Perché in fondo ̶ per parafrasare il titolo del romanzo d’esordio di Simona Vinci ̶ dei bambini non si sa niente. E se poi sono “bambini migranti”, la loro radicale, doppia alterità (in quanto appartenenti alla stagione dell’infanzia, e per di più provenienti da altri mondi, più o meno lontani) rischia di diventare ̶ doppiamente ̶ invisibile. E non ci riferiamo solo al fenomeno (in crescita) dei minori stranieri non accompagnati, che sbarcano sulle coste italiane senza i genitori o senza un adulto legalmente responsabile di loro: rischiando ̶ spesso ̶ di scomparire davvero, facili vittime della tratta. Tra il 2011 (l’anno delle “primavere arabe”) e il 2016, secondo dati diffusi da Save The Children con il primo Atlante dei Minori Stranieri non Accompagnati in Italia 2017, il numero di questi minorenni soli è infatti cresciuto di sei volte (dai 4.209 del 2011 ai 25.846 dell’intero 2016), con un aumento esponenziale che vede triplicato il numero di ragazzini sotto i 14 anni e quadruplicato quello delle ragazzine senza adulti di riferimento.

Sono bambine e bambini invisibili, che incarnano la premonizione di Martin Heidegger nella sua Lettera sull’«umanismo», del 1946: la spaesatezza diviene un destino mondiale. Lo ha anche ribadito, nella sua annuale relazione al Parlamento, nel giugno 2017, l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza: «Il 2016 ̶ spiega ̶ è stato anche l’anno dell’arrivo nel nostro Paese di circa 26mila minori non accompagnati, giunti prevalentemente dall’Africa, fuggiti da guerre e povertà, e arrivati in Italia dopo viaggi pieni di insidie e di pericoli, senza adulti di riferimento e in condizione di particolare vulnerabilità e fragilità».

Il Paese del mantello di Arlecchino

Ma qui ci riferiamo, anche e soprattutto, a quei piccoli “stranieri in patria”, giovani generazioni figlie dell’immigrazione: quasi 3 su 4 non venuti dall’estero ma anagraficamente, culturalmente, linguisticamente italiani in quanto figli di seconde generazioni di stranieri (nel 1993, circa un bimbo su cento nasceva da genitori immigrati; nel 2015 è quasi uno su nove, ovvero il 14,8% delle nuove nascite, secondo dati Istat 2016). Sono loro che rappresentano i tasselli colorati di un’Italia come Il mantello di Arlecchino: efficace metafora usata dal filosofo e Accademico di Francia Michel Serres in un omonimo saggio del 1991 tradotto anche in Italia[3], dove l’immagine viene assunta a simbolo della varietà, della mescolanza e dell’ibridazione delle identità e delle tradizioni come ricchezza e non come sottrazione, e dell’eterogeneità dell’esperienza, della complessità e della diversificazione del sapere come fattori indispensabili a una nuova educazione. Secondo Serres, l’identità di tutti gli esseri umani è tessuta come il mantello di Arlecchino: è composta di «pezzi multicolori, annodati, nuove pezze e vecchi brandelli. Ciascuno di noi porta addosso non solo uno, ma più strati di simili mantelli. Il mantello simboleggia ogni cultura, ogni genere di apprendimento. La stessa conoscenza, nuova o vecchia che sia, è un ibrido di altre conoscenze, che a loro volta sono frutto di incroci di altre conoscenze, mescolanze, strappi, cuciture».

E la cultura, quindi, non ha un’unica e sola origine: la stessa storia dell’umanità, com’è noto, non è altro che l’evoluzione di una fusione di gruppi diversi. Ma la presenza più o meno ampia, nelle varie città, di bambini di etnie differenti, e dunque l’incontro e il confronto con l’“altro” (ammonisce ancora Serres, e con lui Favaro e Colombo) non devono tuttavia essere confusi con la “tolleranza” o, peggio, con l’“assimilazione culturale”: dal punto di vista pedagogico, questa relazione ̶ alimentata costantemente di dialogo e conoscenza reciproca, contaminazioni e “metamorfosi” superficiali e profonde ̶ può e deve essere strutturata nei termini di una «reciproca interdefinizione cognitiva ed etica». È questa è l’odierna sfida antropologica ̶ non soltanto educativa ̶ che abbiamo davanti. Anche da comunicatori sociali.

Dal punto di vista epistemologico, Serres e altri offrono indicazioni significative. Ma, di fatto, come racconta il mainstream comunicativo questa faccia piccolina e nascosta del pianeta immigrazione che è tra noi? Quali modalità comuni ̶ documentate, oggettive e pertinenti ̶ utilizziamo ad esempio per denominare i bambini venuti d’altrove, i loro sogni e bisogni, presenti nella realtà italiana, al di là dell’arida (e spesso imprecisa) elencazione convenzionale di numeri che ingolfano le cronache? E quali strumenti si possono allora utilizzare, nella “cassetta degli attrezzi” del dialogo interculturale, per narrare correttamente (ossia con rispetto, profondità, onestà intellettuale ed empatia: categoria rilanciata da un compianto reporter di rango come Ryszard Kapuściński) il mondo bambino di un altrove così vicino, così lontano?

Uno sguardo alla frontiera dei libri per ragazzi

Un osservatorio prezioso e da ri/scoprire è offerto dall’orizzonte della letteratura per ragazzi, con la sua potente funzione esistenziale, etica ed estetica, nel passato come nell’attualità: dimensione tanto ricca quanto complessa, ma di cui paradossalmente si parla ancora (troppo) poco e in modo (spesso) superficiale o marginale. Lo evidenziano, tra gli altri, Giorgia Grilli ed Emy Beseghi nel recente volume La letteratura invisibile. Infanzia e libri per bambini[4] attraversando temi, metafore, figure e forme tipiche di questa produzione culturale vitale ed eloquente: di importanza cruciale nei suoi legami inscindibili con l’immaginario, grazie alla lingua (potente strumento di costruzione dell’identità come i nomi, i giochi, il cibo, gli spazi) che veicola sentimenti, emozioni, pensieri. Amplificati dall’arte degli illustratori. Un panorama vasto e articolato, che nell’epoca della crossmedialità riesce a “mettere in scena” con intensità ̶ attraverso l’oggetto libro e le sue storie, tra immagini e parole, ponte fondamentale tra adulti e bambini e non solo ̶ uno sguardo critico su noi stessi e sul mondo. Proprio a partire dalla specificità e differenza dell’infanzia, che può aiutarci ad ampliare la nostra idea dell’umano.

Ed è appunto sul versante dell’immigrazione raccontata (o spiegata) ai bambini, nello specifico, che gli esempi si potrebbero moltiplicare, ben oltre i limiti di spazio imposti: è infatti un filone di narr/azione che dal racconto tra fiaba, fiction e realtà alla testimonianza concreta in prima persona, dai laboratori educativi ai progetti, dalle mostre divulgative ad altri percorsi pluridisciplinari (ai confini tra arte, illustrazione, narrativa, poesia, teatro, fumetto e ulteriori linguaggi e codici comunicativi) mette a fuoco con efficacia, almeno a partire dagli anni ’80, altrettanti percorsi iniziatici, percezioni d’identità e peregrinazioni (reali e metaforiche) sul tema. Argomento, per sintetizzare ulteriormente, declinato in almeno quattro grandi àmbiti/topoi: il viaggio; l’approdo, tra naufragio e sbarco; l’inserimento nella nuova realtà, tra accettazione e discriminazioni, disagi e integrazione; il legame più o meno conflittuale con la cultura d’origine. Sono percorsi (autobiografici, d’invenzione, testimoniali, artistici, educativi), che aiutano adulti e bambini ad abbattere muri, sospendere il giudizio, scardinare il pregiudizio. Rimescolando e ribaltando prospettive ed esorcizzando paure, in un cammino dialogante tra affetti e desideri. Un itinerario di conoscenza che apre alla convivenza solidale, debellando l’indifferenza come malattia mortale della contemporaneità.

Mappamondi e bussole per navigare

Qualche esempio concreto tra i tantissimi possibili? Si pensi al lavoro di Sinnos, a Roma, diretta con passione da Della Passarelli e tra le prime case editrici in italia a ideare una collana bilingue, I Mappamondi (suggerita da un grande esperto di pedagogia multiculturale come Vinicio Ongini, già maestro elementare): una originale sigla per bambini e ragazzi «che lascia il segno» (sinnos, in sardo), nata nel 1990 dall’esperienza di una cooperativa nel carcere di Rebibbia e divenuta piccola ma autorevole editrice con una progettualità fortemente impegnata nel sociale, capace di parlare ai più piccoli di temi come la partecipazione, la consapevolezza dei diritti e doveri e l’informazione. Come ha sottolineato Passarelli in una intervista a Il Libraio, «In questo momento storico è fondamentale dare a bambine e bambini, ragazze e ragazzi gli strumenti per affrontare la complessità. Consapevoli del fatto che non è vero che nulla cambia». Già. Ma rispetto a un tema come il racconto delle migrazioni a misura di bambino, la quantità (e qualità) delle proposte è ormai tale che semmai occorre, a chi non è esperto (o propenso) a navigare per questi mari, una bussola per orientarsi, e tracciare così personali rotte. Educative e conoscitive. È quanto deve aver pensato Lorenzo Luatti, ricercatore dei processi migratori e delle relazioni interculturali presso Oxfam Italia e il Centro di Documentazione Città di Arezzo, che ha perciò curato una mostra bibliografica itinerante, «Di tutti i colori», e un catalogo ragionato dal titolo L’immigrazione raccontata ai ragazzi. Vent’anni di proposte dell’editoria per l’infanzia 1991-2011[5], proprio per fare il punto sulla situazione attraverso una selezione di 160 libri passati in rassegna. Operazione diversa, ma in fondo non dissimile da quella, istituzionale, della mostra multimediale «Bambini, storie di viaggio e di speranza», partita da Montecitorio nell’ottobre 2017[6] per celebrare degnamente la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione,

istituita dal Parlamento italiano (legge 21/3/2016, n. 45) in ricordo del naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, che costò la vita a 366 uomini, donne e bambini. Nel decreto istitutivo della Giornata si sollecita non a caso anche il mondo della scuola (v. nota MIUR 20/3/2015) perché approfondisca, in collaborazione con il territorio, i temi dell’integrazione e delle migrazioni attraverso varie iniziative che diano voce e volto ai vissuti dei protagonisti.

La magia educativa degli albi illustrati

Un segmento editoriale specializzato, particolarmente innovativo e utile per sperimentare trasformanti esperienze inclusive e di dialogo interculturale (e intergenerazionale) anche con lettori bambini migranti, è poi quello delle narrazioni visuali: a partire dal misconosciuto universo dagli albi illustrati (i Picture Books) e di quelli “senza parole”, più noti come Silent Books o Wordless Books: della cui arte, storia e “magia” educativa si occupa egregiamente la pedagogista Marcella Terrusi in due volumi, ai quali rinviare necessariamente. «Nei capolavori della letteratura silenziosa ̶ scrive Terrusi ̶ si narra spesso la relazione fra ciò che è molto piccolo e ciò che è molto grande, un dualismo che interessa da sempre la filosofia in Oriente come in Occidente; narrare con le immagini ciò che non si può dire altrimenti è anche un modo per evocare la forza primigenia del linguaggio, per invitare a indagare ancora il mistero dell’infanzia nella sua dimensione principale, quella metamorfica che ci ricorda che siamo esseri in mutamento, coinvolti in un destino migrante comune alle forme naturali e agli elementi culturali». E aggiunge: «La libertà di sperimentazione in questi libri è una garanzia di diritto: la loro molteplicità si oppone all’omologazione del pensiero, è resistenza attiva all’impoverimento del linguaggio, contrasta i meccanismi di indifferenza e separatezza fra le persone, la chiusura delle frontiere e delle prospettive del sogno, in favore di aperture e nuove esplorazioni capaci di mostrarci come l’immaginario collettivo contenga al suo interno infinite possibilità di guarigione, crescita e trasformazione».

Si pensi ̶ per fornire solo qualche esempio significativo, tra la miriade di titoli a disposizione ̶ all’intenso libro bifronte (due copertine, due storie per immagini) dal titolo Migrando, dell’illustratrice argentina Mariana Chiesa Mate[8]: strumento fortemente evocativo, aperto a molteplici interpretazioni e usi didattici possibili. Oppure, per lo stesso raffinato editore, si pensi alla più impietosa, provocatoria e dura interpretazione artistica di Armin Greder in Mediterraneo, con tavole mute ma drammatiche che raccontano come un grido silenzioso il Mare Nostrum tra viaggi, morti e lotte di potere ritratte con il peculiare tratto espressionista dell’autore de L’Isola e Gli stranieri. E se il dramma degli sbarchi, con il suo carico di paura e di speranza, ancora, viene narrato ai più piccoli da Cosetta Zanotti (con le immagini colorate di Desideria Guicciardini) in Fu’ad e Jamila, albo promosso da Caritas Italiana e Lapis Edizioni (2013), la metafora del viaggio da una terra d’origine a una nuova casa è raccontata con semplicità e bellezza da Rebecca Young con le tavole su tela dell’australiano Matt Ottley nel bel libro Un nuovo orizzonte (Terre di Mezzo editore, Milano, 2016: altra significativa sigla editoriale di progetto ̶ nata da un giornale di venti pagine venduto sui marciapiedi e nelle stazioni da persone in difficoltà ̶ che non a caso concepisce i libri «come spazi, non come oggetti. Luoghi aperti in cui sentir echeggiare le voci dei narratori; parole vive che incoraggiano a uscire, conoscere, agire. Non “cose” da infilare su uno scaffale»); mentre di separazione e amicizia, perdersi e ritrovarsi nello spaesamento parla con delicatezza Isabella Paglia nell’albo Il sogno di Youssef[9], in sintonia con le immagini rarefatte della talentuosa Sonia M. L. Possentini; mentre la solidarietà verso i rifugiati viene trasmessa in forma fiabesca dall’artista Lucia Salemi nel tascabile illustrato in 24 pagine La zattera, in vendita su Amazon.

Tralasciando a malincuore tanti altri esempi, non si può tacere come il dolore dello sradicamento, i sentimenti e le emozioni dei “bambini della nostalgia” siano poi narrati con evocativa sensibilità ai lettori più piccoli da Chiara Lorenzon con Amali e l’albero, storia illustrata poeticamente da Paolo Domeniconi[ con un “altro” sguardo, capace di trasfigurare con sensibilità una condizione problematica; così come fece a suo tempo, precorrendo a suo modo tempi e tendenze, Letizia Galli - artista fiorentina e cosmopolita di talento geniale - con lo struggente libro illustrato Comme le Papillon[, ispirato da una storia vera trasfigurata nelle splendide tavole dell’autrice (gli originali attualmente in mostra nel progetto triennale itinerante Storie di bambini di Letizia Galli, Napoli-Firenze-Venezia-Milano-Roma, che dal 16 dicembre 2017 fa tappa a Venezia).

L’approdo: ciascuno cresce solo se sognato

In una folgorante fiaba d’amore per adulti scritta nel 1998 dal premio Nobel per la letteratura Josè Saramago, Il racconto dell’isola sconosciuta[12], l’autore portoghese scriveva: «Se non esci da te stesso, non puoi sapere chi sei». Paradigma potente di questo aforisma è il libro senza parole The arrival di Shaun Tan, edito anche in Italia con il titolo L’approdo e unanimemente considerato un capolavoro. Non solo per la raffinatezza grafica e il timbro universale del racconto visuale ̶ una storia di migrazione di notevole impatto emotivo ed estetico, senza coordinate geografiche, ispirata da storie vere raccolte, sedimentate e rielaborate in cinque anni dall’artista, autore e illustratore australiano, a sua volta figlio di un migrante dalla Malesia all’Australia negli anni Sessanta ̶ ma anche per il suo essere diventato un prototipo classico: sia come albo illustrato per bambini, sia come sofisticata graphic novel per adulti.

Ne può essere testimonianza concreta, per fare un ultimo esempio, l’uso “geopedagogico” che è stato fatto in Italia di questa opera di Shaun Tan, «romanzo poetico sulla mobilità umana», nel prezioso contributo italiano delle pedagogiste Giorgia Grilli e Marcella Terrusi nell’ambito di un progetto internazionale dal titolo «Visual Journeys: Understanding Immigrant Children’s Response to Visual Images in Picturebooks», svolto in Scozia (capofila con l’università di Glasgow), Arizona, Spagna e Austrialia. Un illuminante lavoro di ricerca (e di didattica), dal titolo «Lettori migranti e silent book: l’esperienza inclusiva delle narrazioni visuali», in cui si sperimenta, osserva e racconta la risposta di una microcomunità di bambini migranti di quinta elementare a Bologna al libro L’approdo di Shaun Tan, definito dalle due studiose/educatrici un «catalizzatore pedagogico e relazionale di competenze plurali, capaci di suscitare consapevolezza e cambiamento». L’esito di questo “gioco” di negoziazione del senso, in un’ottica di educazione alla cittadinanza globale, diventa così prassi etico-politica. Esercizio del diritto di essere lettori attivi nella comunità internazionale, anche da piccoli. E consapevolezza, con Danilo Dolci, che «ciascuno cresce solo se sognato».

foto: AgenSIR

Ultima modifica: Lun 26 Mar 2018