De-ideologizzare il lavoro

Oggi #deskdelladomenica è ancora dedicato al lavoro, il tema centrale del numero di Desk dell’autunno scorso. L’intervento, molto articolato, è di Marco Bentivogli, il segretario nazionale della Fim (Federazione dei metalmeccanici) Cisl.

Marco Bentivogli (*)

L’ideologia è una cosa importante, se è un sistema concettuale e interpretativo che fa riferimento a idee e valori. Quando perde ogni oggettività e collegamento con la realtà e le persone si trasforma in un costoso caleidoscopio che ti offusca qualsiasi lucidità. Schemini novecenteschi mal studiati, per un mondo che non c’è più. Confortevoli solo per una lettura pigra, distaccata, lontana dalle condizioni di vita. Nessuna passione per il lavoro e le condizioni reali delle persone.

In Italia il lavoro rappresenta da sempre un terreno di scontro ideologico, nel quale il merito finisce spesso in secondo piano. Espressioni come “macelleria sociale”, “compromesso al ribasso”, “deportazioni”, “attacco alla democrazia e alla Costituzione” fanno parte di un armamentario retorico da politica a orizzonte quotidiano che ha come unico risultato quello di de-responsabilizzare la classe dirigente, compresa quella sindacale, rispetto alla complessità dei problemi. La conseguenza è la polarizzazione delle posizioni sul nulla, marchio di fabbrica di un Paese che vive perennemente in campagna elettorale. Una politica fondata sull’emotività e non sui valori praticati nei fatti finisce, però, solo per ingrassare l’orda populista, che del resto è abituata a solleticare la pancia del Paese: un gioco, questo, che a lungo andare rischia di mettere in crisi la nostra democrazia.
Paura del futuro, paura dell’immigrato, paura dell’Europa, paura della tecnologia: tante paure con un minimo comune denominatore, la demagogia e l’assenza di ogni legame con la realtà; e, di conseguenza, l’incapacità di offrire una prospettiva ad un Paese intrappolato dai nodi che lo tengono eternamente prigioniero del suo passato.

Il nostro è un Paese cucito su misura per i burocrati, un Paese che, come ha detto di recente Sabino Cassese, “ama perdere tempo”. Perché l’unico obiettivo, in fondo, è quello di preservare lo status quo, di sbarrare il passo ad ogni volontà di innovazione, regolarmente interpretata come un “attacco alla Costituzione”.
In un contesto del genere non desta meraviglia la scarsa attenzione che suscitano i temi del lavoro e dell’impresa. Né appare un caso che alcuni mali storici che affliggono la nostra economia si trascinino da decenni senza soluzione: l’eccesso di burocrazia, un sistema giudiziario lento e farraginoso, un costo dell’energia del 30% superiore alla media europea, un sistema creditizio che preferisce la rendita all’impresa. Si tratta di cose che non appassionano i media e neppure il mondo politico, che preferisce invece concentrarsi sui “simboli”, anche se sarebbe più corretto parlare di totem: vedi i casi dell’articolo 18, degli “esodati” e, ultimo in ordine di tempo, dei voucher.

Su quest’ultima si è scatenata una battaglia ideologica e politica, in realtà una gazzarra fomentata da una parte del sindacato e da alcuni partiti pre-elettorali, che ha precluso la possibilità di modificare uno strumento in sé buono, specie dal punto di vista del contrasto del lavoro nero. Abolire i voucher, in realtà, ha significato perdere 375 milioni di entrate contributive che finiranno nel sommerso. Il che dimostra una cosa: abolire i buoni lavoro non è una battaglia di sinistra, come dice qualcuno, ma solo un modo per mettersi a posto la coscienza lasciando soli i lavoratori. Bastava ricondurre i voucher alla loro funzione originaria. Peraltro è appena il caso di osservare che non si possono abolire tutte le modalità contrattuali che danno luogo ad abusi. A combattere i quali servono invece investimenti seri sulle attività ispettive, che però tutti i governi degli ultimi vent’anni hanno ridotto.
Anche la discussione surreale intorno alla Robotax dovrebbe metterci sull’avviso. Si tratta infatti di una battaglia che alla vigilia della quarta rivoluzione industriale reca l’odore stantio delle ideologie ottocentesche. Fare la guerra alla tecnologia in un Paese che proprio per mancanza di investimenti sulla tecnologia ha perso interi settori del suo manifatturiero è semplicemente assurdo.

Ovviamente, la realtà è un’altra: innovazione tecnologica, formazione, miglioramenti nell’organizzazione del lavoro sono i fattori che – lo hanno dimostrato i casi di reshoring in Fca e Whirlpool – possono consentire alla nostra industria di guardare al futuro.
Anziché immaginare nuove, fantasiose tasse, cerchiamo piuttosto di detassare il lavoro. Magari riducendo subito il cuneo fiscale, che è superiore di 10 punti rispetto alla media europea.
La tecnofobia è all’origine anche di un’altra campagna mistificatoria, quella che va predicendo la fine del lavoro. Un vero nonsense dal punto di vista sia storico che economico, che pure si è guadagnato un certo successo negli ambienti intellettuali e giornalistici (oltre che tra qualche sindacalista pigro). Intanto della formazione nessuno si preoccupa. Eppure dovremmo. Siamo infatti ben al di sotto della media europea (dati Isfol sul 2015) sia per numero di diplomati e laureati che per l’abbandono degli studi.

Prima di affrontare qualsiasi tema che riguardi il lavoro è dunque fondamentale de-ideologizzare la discussione, allontanandola dai salotti radical chic, quelli che amano più le idee delle persone, e discutere invece seriamente sulle prospettive e sulle misure che servono a migliorarle.
Un esempio è arrivato dai metalmeccanici con l’ultimo contratto, da molti definito “storico”: non si tratta di un’esagerazione, sia in termini di contenuti che di contesto. Storico significa, in questa accezione, non solo che il testo contiene alcune novità di rilievo rispetto agli ultimi decenni di contrattualistica, ma il suo carattere d’insieme è di “eccezionalità” rispetto al contesto in cui è maturato, tanto per i contenuti che per le prospettive che apre su formazione, welfare aziendale, partecipazione.
I metalmeccanici della Cisl sono stati inoltre protagonisti negli ultimi anni di una serie di iniziative, organizzate di concerto con l’associazione NeXt (Nuova Economia per Tutti) di Leonardo Becchetti, volte ad affermare un’idea integrale di sostenibilità – quella sociale che va di pari passo con quella economica e quella ambientale - e a far vivere le buone pratiche del consumo responsabile attraverso il cosiddetto “voto col portafoglio”. Riconnettere tra loro lavoro, produzione, consumo nella prospettiva della sostenibilità vuol dire riempire di contenuti innovativi la rappresentanza sindacale, che oggi non può fare a meno di uno scambio forte con i soggetti che sono più avanti nell’innovazione sociale. La Fim, insieme ai mondi vitali dell’associazionismo, è impegnata nella realizzazione di un nuovo umanesimo del lavoro, che passa attraverso una ricomposizione tra economia e società, e che ha come cardini la relazione tra le persone, generativa anche di valore economico, e il contributo di tutti, in un’ottica di capitalismo cooperativo, come lo chiama Mauro Magatti.

Cambia il lavoro, cambia il sindacato, cambiano i bisogni
Il lavoro sta cambiando e in maniera veloce, complice anche la crisi. Si sta configurando un “nuovo” modo di intendere il lavoro sia in termini di prestazione che di spazio e tempo, un modo che non è autonomo né propriamente dipendente ma assomiglia sempre più ad un progetto. È su questo che dobbiamo riflettere senza tentazioni cataloganti.
È una sfida per tutto il sindacato, una sfida che si può vincere a patto di convincersi che non è più tempo di manutenzione ordinaria, ma di scelte radicali, rigeneratrici, rifondative.
Oggi fare il sindacalista significa ascoltare, studiare, scegliere le priorità e fare proposte. Troppi sindacalisti vivono ancora con la mente nell’Italia in cui “hanno tutti ragione”, altri non si sono neanche sforzati di capire dove va il lavoro e già pensano a nuove categorie giuridiche in cui incasellarlo.

Eppure, senza scelte il sindacato si condanna all’irrilevanza. Scegliere significa anche distinguere tra chi lavora e lavora bene e chi non lavora o fa il “furbetto”, perché “non c’è nulla di più ingiusto di fare parti eguali tra diseguali”, diceva don Milani. Significa scegliere tra settori industriali con reali prospettive su cui puntare, altrimenti la scelta la farà il mercato, a volte meglio di chi non ha il coraggio di scegliere e si rifugia nel “tutto si tiene”.
Da questo punto di vista ‘Industria 4.0’ può diventare un’occasione di rilancio dell’industria e del lavoro nel nostro Paese. Il nostro giudizio sul “piano Calenda” è largamente positivo perché ha avuto il merito di riportare l’industria manifatturiera al centro del dibattito politico, abbandonando la vecchia idea di politica industriale dirigistica orientata a finanziamenti diretti, bandi e indicazioni specifiche di tecnologie e beni strumentali sui quali investire, preferendo un’impostazione caratterizzata da neutralità tecnologica e da incentivi automatici facilmente accessibili senza intermediazioni burocratiche o politiche. L’impresa resta quindi il cuore del “Piano” ma si inserisce in una rete di attori come università, centri di ricerca e start-up.
Un approccio del tutto nuovo che cerca di colmare i gap che l’Italia ha accumulato rispetto ad altri paesi – è il caso della Germania, che può contare sul Fraunhofer Institute - che da tempo si sono dotati di strutture di ricerca in grado di interagire con il mondo delle imprese. In questo scenario, la partecipazione, e non il conflitto, è la chiave per comprendere e dare prospettiva all’evoluzione del mondo del lavoro.
Va però sottolineato che la fabbrica intelligente non si esaurisce nella tecnologia ma ha bisogno di un ecosistema 4.0, all’interno del quale la fabbrica sia interconnessa con ambiente e territorio, Pubblica Amministrazione e scuole, attraverso l’infrastruttura della rete. Questo ecosistema tecnologico ha bisogno dell’uomo, della sua creatività e della sua intelligenza per poter funzionare. Come ricordo sempre, per capire i mutamenti del lavoro uno strumento valido e attuale è la Laudato Si’.

La formazione, dopo la salute, il diritto più importante.
La formazione è il diritto che garantisce salari più alti, lavori più stabili e di qualità migliore. Per anni è stato relegato in coda alle priorità strategiche. A proposito di capitale umano, ad esempio, va sottolineato che il nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici, con l’introduzione del diritto soggettivo alla formazione (24 ore annuali o, in alternativa, 300 euro a disposizione dei lavoratori delle aziende che non svolgono corsi), senz’altro uno dei suoi capitoli più innovativi, fa un balzo deciso in avanti, si muove cioè verso il superamento definitivo della logica fordista, che ha contraddistinto la fabbrica nel Novecento, e dei rapporti gerarchici che ne erano il corollario.
Il diritto soggettivo alla formazione introdotto ha senso in un quadro di investimenti sulle politiche attive, sull’alternanza tra scuola e lavoro e sull’apprendistato come forma privilegiata di ingresso dei giovani al lavoro.

La formazione, infatti, agisce su una delle principali leve abilitanti di ‘Industry 4.0’: l’uomo; e contrariamente a ciò che ripetono i catastrofisti, sarà proprio l’uomo il centro dell’ecosistema 4.0. Certo, andrà ripensato il suo ruolo nella fabbrica: i lavori ripetitivi e pericolosi saranno sempre più appannaggio dei robot, come d’altra parte avviene già oggi nelle grandi aziende manifatturiere, mentre il lavoro umano sarà sempre più legato ad una componente intellettuale e creativa. In questo scenario la formazione diviene strategica e sarà il vero diritto al futuro.
Così come decisiva sarà una contrattazione cucita “su misura”, in grado di rispondere alle esigenze di lavoratori e famiglie sulla base del criterio della maggiore prossimità. Ecco perché insistiamo sull’importanza dello smartworking – che va regolamentato e non demonizzato – e sul welfare aziendale.
Nell’immediato sarà però necessario sostenere, e in questo la contrattazione territoriale può dare un grosso aiuto, le piccole e medie imprese, che faticano a tenere il passo dell'innovazione, e quelle medium tech, che rappresentano uno degli elementi maggiormente vitali del nostro sistema produttivo.
‘Industry 4.0’ rappresenta una rivoluzione di carattere culturale prima che tecnologico e ci sono troppe imprese che ritengono gli investimenti in innovazione, così come quelli sulla formazione, uno sperpero di risorse.
L’importante è non cullarsi nei rimpianti, non alimentare la cultura da bar della lagna, che nei social è diventata partito, e dei luoghi comuni che in Italia hanno già troppi campioni, e accettare la sfida del cambiamento. Anche quando farlo è faticoso. Ma è una fatica positiva, che serve a ridare speranza a tutti quelli che hanno voglia di un mondo migliore e che cercano una strada per costruirlo. È cambiato tutto, e siamo solo agli inizi, ed è tempo perso ostinarsi a leggere il lavoro con le lenti del Novecento, senza calarsi nella realtà.

Giovani e lavoro
Quando si parla di giovani, ma anche di donne, si tende sempre a parlane incasellandoli dentro una sorta di minoranza statistica o peggio dentro “quote”, come se fossero l’anello debole della catena sociale. Ma i giovani rappresentano biologicamente la spina dorsale che sorregge in termini di energia, idee e prospettiva il futuro di una nazione. La curva demografica del nostro Paese ci restituisce purtroppo uno scenario poco confortante, che vede un saldo negativo, se non fosse per l’apporto dato dagli immigrati. Una recentissima ricerca dal titolo “Giovani, lavoro e rappresentanza”, che la Fim ha condotto insieme all’Istituto “G. Toniolo” su un campione di 2.000 giovani dai 20 ai 34 anni, mostra un quadro problematico della condizione delle nuove generazioni sul mercato del lavoro italiano. L’Italia continua ad essere il paese che lascia maggiormente i giovani in inoperosa attesa tra il non studio e il non lavoro. La percentuale di Neet nella fascia 15-34 è pari al 26%, oltre 10 punti sopra la media europea. Mentre il tasso di occupazione degli over 50 ha visto progressivamente ridursi negli ultimi anni il divario rispetto alla media europea, quello giovanile rimane bloccato su valori molto bassi.
Le nuove generazioni italiane si trovano di fronte non solo al lavoro che manca, ma anche al lavoro che cambia come conseguenza dell’impatto di tre grandi trasformazioni che possono essere indicate con tre “I”: Invecchiamento della popolazione, Immigrazione e Innovazione tecnologica. Secondo la maggioranza dei giovani intervistati, tutte queste trasformazioni possono avere un impatto sul lavoro giovanile.

Il fattore di preoccupazione più importante per gli intervistati, più che l’immigrazione, è il protrarsi della permanenza al lavoro delle generazioni più anziane. La preoccupazione per la concorrenza degli immigrati è infatti indicata da poco più della metà degli intervistati, mentre si sale a quasi tre su quattro per lo scarso ricambio rispetto ai posti occupati dai lavoratori maturi. Intermedia la posizione dell’impatto delle nuove tecnologie, che preoccupa oltre il 60% dei giovani.
Esiste un interessante legame con il titolo di studio. Il timore nei confronti della concorrenza degli immigrati risulta pari al 65% per chi ha frequentato solo la scuola dell’obbligo e si dimezza (33%) tra i laureati. Rilevante, anche se un po’ più ridotta, la relazione tra innovazione tecnologica e la preoccupazione di veder bruciato il proprio posto di lavoro: si passa dal 64% di persone abbastanza o molto preoccupate tra chi ha titolo basso al 55% per i laureati.
Numeri che dovrebbero far riflettere seriamente, non solo la politica ma l’intero Paese. Immagino i volti, la rabbia, lo scetticismo – o peggio l’indifferenza – di un ragazzo di 16 anni quando sente parlare di “giovani” in qualche statistica collegata, ad esempio, alla disoccupazione o al Paese che invecchia. La difficoltà di costruirsi un futuro traspare da ogni risposta.

A questi giovani dobbiamo rispondere con le parole di Papa Francesco, quelle pronunciate durante l’incontro con i lavoratori dell’Ilva di Genova: “Non rassegnatevi all’ideologia che sta prendendo ovunque e che immagina un mondo dove solo metà o forse due terzi dei lavoratori lavoreranno e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale. L’obiettivo vero da raggiungere non è ‘il reddito per tutti’ ma ‘il lavoro per tutti’”. Per farlo bisognerà investire molto sulla formazione dei giovani, che rappresenta il diritto al futuro, che dà stabilità al lavoro, più reddito e più qualità.
Purtroppo mentre Macron in Francia annuncia investimenti in formazione per 15 miliardi di euro, in Italia dopo il referendum del 4 dicembre si è bloccato tutto. Il potere è tornato alle regioni e i centri per l’impiego sono – come scrive Fabrizio Patti su Linkiesta – degli zombie, in mano, neanche formalmente, a quel che resta delle province. Con il nostro contratto abbiamo dato un contributo per dare centralità a questo tema con il diritto soggettivo alla formazione, ma non basta. La formazione negoziata rappresenta una parte importante che va integrata con altre opportunità formative.
Basta, dunque, retorica sui giovani. Soprattutto da parte del sindacato.
Perché è anche (o soprattutto) colpa nostra quando i ragazzi e le ragazze non sanno chi siano CGIL, CISL e UIL o ci vedono come qualcosa di sorpassato e inutile. I giovani, nonostante tutto, credono ancora nel sindacato, come dimostra la ricerca della Fim curata dal prof. Alessandro Rosina, se il sindacato è credibile, è coerente con ciò che afferma: ma l'impressione è che siamo davanti ad un’ultima chance.

Anche all’interno del sindacato i giovani non dovranno essere solo “ospitati”: bisogna mettere in campo politiche dei quadri che consentano loro di fare esperienze concrete, di avere ruoli e protagonismo vero, senza buttarli nel guado, e senza troppe analisi di “compatibilità politiche”, ma accompagnandoli, lasciare anche che sbaglino. E che portino la loro innovazione vera, non solo quella da “replicanti”.
Devo dire che ci abbiamo provato, con importanti successi, con il ‘Tirocinio 4.0’ e il network giovani metalmeccanici. Lavoreremo, giorno dopo giorno, per promuovere un’ ”invasione” pacifica di ragazze e ragazzi della FIM.

Rinnovamento, non giovanilismo
Per ripartire dai giovani è necessario innanzitutto che i non giovani cambino passo. Basta col piagnisteo o con il conto alla rovescia per il giorno della pensione; basta con la pretesa di eternità. Trasmettiamo passione, voglia di esserci e costruiamo spazi liberi a partire dall’esempio personale.
“Meritocrazia” è un concetto di cui spesso si abusa o che si utilizza a sproposito. Oppure, come ci ha ricordato sempre Papa Francesco, viene impropriamente sovrapposto e confuso con quello di “privilegio”, di appartenenza di classe. Per troppo tempo ‘sindacato’ e ‘merito’ sono stati termini antitetici, cioè ha prevalso una linea sindacale che – in nome di un falso egualitarismo, che non ha accontentato nessuno ma anzi ha creato disuguaglianze – non ha saputo distinguere tra chi lavora bene e chi non lavora bene, tra chi si assume delle responsabilità e chi non se le assume, tra inoperosi e quelli che si fanno carico del lavoro. Contribuendo così ad abbassare il livello qualitativo complessivo della produttività e della qualità dei servizi e a ridurre la competitività delle nostre imprese. Nel nostro Paese vince troppo spesso l’idea che più dell’impegno e delle capacità contino la fortuna e le relazioni.
La FIM ha fatto una scelta diversa e oggi collabora anche con il Forum della Meritocrazia, che si occupa appunto di saper distinguere la qualità, a tutti i livelli, in tutti i contesti, tra tutti i soggetti (lavoratori, imprenditori, scelte politiche e istituzionali). Attraverso il riconoscimento e la valorizzazione del merito si può contribuire a dare una spinta all’economia e avanzare in termini di competenza e di innovazione, di processo e di prodotto. Insieme ad una maggiore trasparenza nei criteri di valorizzazione della professionalità dei lavoratori coinvolti, anche attraverso gli strumenti del bilancio delle competenze e del rinnovato sistema di inquadramento professionale, inseriti nel nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici.
Stesso approccio va applicato anche all’interno del sindacato, per selezionare e formare sindacalisti del presente e del futuro su logiche che riguardino il senso di appartenenza all’organizzazione, la condivisione dei valori e delle scelte originarie della nostra organizzazione, la competenza e i risultati concreti dell’azione quotidiana di rappresentanza.

(*) L'autore è segretario generale Fim Cisl

Ultima modifica: Sab 19 Mag 2018