Rapporto comunicazione: La mediazione necessaria che deve fare il giornalista

Commentiamo alcuni aspetti del rapporto Censis-Ucsi con Adriano Fabris, docente di Etica della Comunicazione all’Università di Pisa ed estensore del Manifesto per un’Etica dell’Informazione, promosso nel 2009 dall’Ucsi.

Dopo aver visto i risultati del rapporto Censis-Ucsi pensa che abbia ancora un senso la “mediazione” dei giornalisti?

“Dipende come questa mediazione viene svolta. Le notizie ormai si trovano in rete. Ma non sempre è chiaro quali siano rilevanti e quel è il loro significato. Si tratta di una mediazione oggi necessaria. Ma il pubblico deve sentirne il bisogno”. 

Ma ne sente davvero il bisogno? Non ci sono valori che questa “disintermediazione” mette a rischio?

“Mi pare che oggi la professione giornalistica sia spinta ad abbandonare la sua semplice funzione informativa per rivestire un ruolo diverso, per fornire un altro servizio alla collettività: quello di permettere la comprensione di ciò che ci accade. Se ciò viene fatto davvero, il pubblico si accorgerà che non basta solo scaricare le notizie dal web”.

Crede anche lei che il “digital divide” separi generazioni diverse e anche le “élite" dal popolo? Come si può porvi rimedio?

“C’è in effetti un divario, una separazione reale: anche se la distinzione spesso non è così netta, come mostra anche il rapporto Censis-Ucsi. I nonni, per esempio, apprendono dai nipoti e si adattano ad alcune delle opportunità che gli smartphones offrono. E così, dal basso, cambia la nostra mentalità”.

Siamo (quasi) tutti su internet, ma lo sappiamo usare davvero? E cosa ci facciamo soprattutto?

“Surroghiamo la nostra crescente incapacità di coltivare relazioni vere, impegnative, mediante il collegamento virtuale dei social network. Ma usiamo Facebook, ad esempio, in maniera molto ingenua: senza renderci conto di come negli ultimi anni la sua struttura è cambiata per rispondere a istanze economiche”. 

Se i giornali perdono ancora, la tv resta centrale nella “dieta mediatica” degli italiani (e non solo di loro, basta vedere cosa accade negli Stati Uniti per le elezioni). Lo ritiene un paradosso?

“No, perché la tv è riposante, cioè non impegna, se non a prestare un po’ di attenzione. Questo è e rimarrà il suo vantaggio: almeno fino a quando le reti sociali non saranno in grado, se mai lo saranno, di offrirci un ambiente altrettanto rassicurante” .

I “social” che crescono soprattutto tra i più giovani ci fanno vivere - scrive il Censis - in una dimensione “biomediatica”, e tutta la nostra vita viene condivisa in un ambiente pubblico. A quali conseguenze ci porta questo fenomeno?

“Comporta la confusione di reale e virtuale. E non saper distinguere i due ambienti è già causa di molti problemi nella nostra vita quotidiana”. 

In questa dimensione completamente trasformata, che spazio c’è per un’etica della comunicazione?

“Certamente. Sia chi comunica, sia chi fruisce del messaggio dev’essere in grado, per godere appieno del proprio spazio comunicativo, di sapere “che cosa sta sotto” a questi processi. L’etica fa emergere proprio questo, e permette di giudicare se è buono o cattivo”.

Ultima modifica: Sab 1 Ott 2016