Che fine ha fatto il genio femminile?

Che fine ha fatto la «Mulieris Dignitatem» invocata, il 15 agosto di trent'anni fa, dalla lettera apostolica di Giovani Paolo II? E come viene trattato dai media il cosiddetto «genio femminile» riconosciuto dal pontefice polacco?

Donatella Trotta (2017)

A giudicare da come le donne vengono raccontate nel mainstream comunicativo, oggi, non c’è da stare molto allegri. E non soltanto per l’orrorifica ondata di ginecidi e di violenze di genere che ormai ha assunto i toni contabili di un bollettino di guerra, con la registrazione puntuale del numero delle vittime di quello che è il volto (visibile) di ciò che Susan Faludi chiamava “Backlash”: ossia il contraccolpo del conflitto (invisibile) dichiarato dagli uomini alle donne. Tanto da spingere negli ultimi anni a manifestazioni che per certi versi ricorda l’astensione pacifista di Lisistrata, eroina della commedia greca di Aristofane. E non c’è da stare allegri nemmeno - volendo pensare alla dimensione del lavoro - per i dati ormai a tutti noti di un universo femminile mediamente più istruito ma meno pagato (a parità di ruoli) degli uomini: tanto da fa esclamare a papa Francesco, attentissimo alle questioni sociali: «Scandaloso che le donne guadagnino meno degli uomini!».

Ma il problema della questione femminile, in Italia e non solo, è ancora più complesso dei meri dati di cronaca o delle sole indagini socio-statistiche. Investe l’antropologia culturale. Le culture delle donne. E il futuro stesso della nostra civiltà. Perché coinvolge, ad esempio, il tema della maternità: il «non pensato della nostra epoca», come lo definisce Silvia Vegetti Finzi. Un tema che ci interpella tutti. E richiede, perciò, un supplemento di riflessione. Anche e soprattutto da parte di media, organi (per quanto delegittimati dall’era della disintermediazione digitale, o in crisi) ancora preziosi per la formazione e l’informazione dell’opinione pubblica.

Anche qui, le cifre parlano chiaro: da tempo l’Istat certifica un evidente calo demografico. Non basta prenderne atto. Occorre chiedersi perché. Cercare, proporre e condividere soluzioni: come fece, a suo tempo, una straordinaria “femminista” cristiana norvegese, Janne Haaland Matlary, pubblicando un libro da noi purtroppo passato sotto silenzio: «Il tempo della fioritura. Per un nuovo femminismo» (tradotto in italiano per Leonardo, 1999). Una testimonianza di (ri)conciliazione (e non solo tra tempi di vita e di lavoro) che vale la pena di rilanciare, oggi. Con il coraggio necessario a una “minoranza eticamente determinata” che voglia dialogare seriamente con le sfide del presente: oltre l’autoreferenzialità, oltre gli steccati (e i pregiudizi) ideologici. Come ha fatto il cardinale Gianfranco Ravasi, che in seno al Pontificio Consiglio per la Cultura ha promosso una Consulta femminile e ha riunito scienziate, teologhe, intellettuali, imprenditrici, sportive credenti (di varie confessioni religiose) e non credenti, laiche e religiose.

Un organismo permanente, nel quale sperare molto per veicolare a 360 gradi lo “sguardo delle donne”. Dentro e fuori del dicastero ecclesiale. Per lavorare davvero «in dialogo con le diversità, le religioni e i tanti mondi in cui le donne operano, convinte che la pluralità è il presupposto dell’azione umana».

Ultima modifica: Dom 7 Mar 2021