Il 25 aprile (e la Rai)

Ammettiamo, come dato di fatto, che a quasi 80 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’antifascismo non sia più ai primi posti nei sentimenti degli italiani. Credo sia legittimo non lo sia più, ma soltanto in termini puramente ideologici; invece, ragionando in termini storici, il giudizio sul fascismo deve restare del tutto negativo, anche se “ha fatto anche cose buone” (ci mancherebbe che non avesse fatto proprio niente di buono, in venti anni di potere), e questo perché si è alleato, fino all’ultimo minuto, con la parte sbagliata della storia e con un regime tra i più sanguinari e razzisti dell’età moderna, partecipando ai suoi crimini. Per questo il 25 aprile va celebrato: è la fine di quegli orrori.

Io credo che l’antifascismo stia perdendo il suo smalto perché le ideologie tradizionali, intese come sistemi chiusi e autosufficienti di credenze politiche e comportamentali poco disponibili al confronto e al dialogo, stanno scomparendo e vengono sostituite da nuove ideologie, supportate dai social media, altrettanto o ancora più chiuse in se stesse. Sono quelle bolle, create dagli algoritmi, che filtrano le opinioni rendendo irraggiungibile ogni pensiero dissonante dal proprio. A novembre le elezioni presidenziali americane ci diranno se questo meccanismo perverso riuscirà a far eleggere un candidato oggettivamente impresentabile.

Se è vero che l’antifascismo perde il suo smalto ideologico, altrettanto dovrebbe avvenire per il fascismo. Invece restano ben visibili affetti irrinunciati, anche tra rappresentanti politici dominanti, che mostrano la sussistenza dei vecchi radicamenti ideologici. In realtà, mentre si richiede che la “cultura dominante” non sia più ostaggio esclusivo dell’antifascismo ideologico, si mostra altrettanta incapacità a liberarsi dal fascismo ideologico.

Si perpetua un perverso gioco delle parti contrapposte, tenute in vita da vecchie ideologie. Questo ostacola il dialogo, il superamento delle ideologie medesime; non si lascia che il dibattito politico e culturale si svolga liberamente, nella società civile e nelle istituzioni, partiti compresi, sia sui temi fondamentali – libertà, diritti, doveri... – sia sui temi contingenti della modernità.

In questo quadro, a mio giudizio, va inserita la vicenda “Scurati” che in questi giorni imperversa sugli organi di stampa, fino a meritarsi, con mio raccapriccio – certo influenzato dalla mia storia personale – la posizione di apertura di un TG1 della sera, guadagnata a fini di propaganda.

Anche qui: gli scontri frontali, gli scambi di accuse intervenuti nella vicenda, che non sto qui a ripercorrere, nemmeno quando mi sono apparse evidenti vere e proprie falsità, di per sé non mi interessano molto. Non per equidistanza, perché sono convinto che il torto sia in capo alla azienda RAI, ma perché la vicenda in sé, tutta ideologica, credo dovrebbe interessare agli italiani molto meno degli altri temi di attualità, che certo non mancano.

Invece, è proprio la RAI al centro delle mie preoccupazioni. Sono convinto che in un mondo ormai invaso dalla comunicazione interpersonale, che si esercita individualmente e che viene vissuta come spazio di libertà, ma che è invece dominata da algoritmi mercantili che agiscono nella logica della frammentazione sociale, sia a tutti necessario un rilancio sostanzialmente rinnovato del servizio pubblico della comunicazione.

Oggi la RAI fa poco e male servizio pubblico. Poco, perché la parte commerciale, spinta dalla inadeguatezza e precarietà delle risorse pubbliche, pare ormai predominante. Male, perché la sua cultura e la sua governance troppo a lungo sono state influenzate sia da modelli commerciali, sia dal controllo lottizzato dei partiti. Esistono, ovviamente, sacche significative di resistenza interna; ma la “logica dei pacchi”, quella che ogni sera propaganda il gioco d’azzardo, il rischio irrazionale a scapito della logica e della comprensione del reale, appare dominante.

Per rilanciare il servizio pubblico della comunicazione, oggi più necessario che mai, occorre ripensarlo, rivoltarlo come un vecchio calzino. Contro tutte le evidenze, in primo luogo il diffuso disinteresse pubblico per l’argomento, c’è ora una straordinaria occasione che può far sperare. Oltretutto, il degrado sta raggiungendo livelli tali – il caso Scurati ne è un esempio – da far intravedere una possibilità di reazione.

L’occasione straordinaria è la pubblicazione, sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica, di una legge europea, il Regolamento EMFA (European Media Freedom ACT). Si tratta di una norma che è già stata passata al vaglio sia del Parlamento sia della Commissione europei, e che è già giuridicamente applicabile in Italia. L’articolo 5 del Regolamento prevede infatti, come condizione per l’uso di pubblico denaro, che il Servizio Pubblico sia “indipendente” (cioè, non dipenda né dal Governo né dal Parlamento) e, inoltre, che il finanziamento debba essere garantito su base pluriennale e irrevocabile, ad evitare ricatti finanziari.

Dovrà dunque essere modificata la legge vigente, che mette la nomina del Consiglio di amministrazione RAI in capo al Governo e al Parlamento senza alcun meccanismo di garanzia circa l’autonomia dei nominati (il solo principio già in vigore, quello di un processo trasparente di valutazione dei candidati, pare sia disatteso proprio in questi giorni). E che consente di determinare annualmente e unilateralmente l’ammontare delle risorse pubbliche delicate (oggi, attraverso il canone, ma non è la sola possibilità disponibile).

Ovviamente, la norma – in un caso complesso come la gestione della RAI – non può da sola cambiare la realtà, se non si definisce la missione del servizio pubblico, che dovrebbe concentrarsi sulla promozione della coesione sociale, e senza trovare le donne e gli uomini giusti per incarnare questa missione. Comunque, l’occasione è imperdibile.

Dicevamo che il Regolamento europeo è già legge in Italia. In realtà, esso stesso stabilisce che la sua applicazione deve essere garantita entro quindici mesi dalla sua entrata in vigore, che è già avvenuta. Sono quindici mesi utili per preparare una nuova legge, e per cercare di consolidare le motivazioni e gli strumenti della nuova missione aziendale.

I pessimisti, o forse i realisti, temono che ciò non avverrà senza una o più spinte da parte della società civile. Per questo, proprio in questi giorni sta nascendo una associazione di scopo, che si chiama Articolo V, la cui unica finalità è la raccolta dei fondi necessari alle azioni giudiziarie che, tra quindici mesi, dovessero stimolare il legislatore italiano ad adeguarsi alla norma europea. Ma di questo, forse, converrà riparlare.

Ultima modifica: Mar 23 Apr 2024