Rallentare, #meditare...

Il tempo ancora non sfuoca i ricordi di un avventuroso viaggio di lavoro in Brasile e Bolivia. Un viaggio durato oltre due mesi, nell’estate del 2001, per documentare alcuni progetti realizzati dalla Chiesa italiana con i fondi dell’otto per mille. Il pensiero torna spesso alla giornata più lunga trascorsa sulle alture boliviane, tra Cochabamba e Sucre, lungo una strada sterrata e tortuosa.

Il nostro fuoristrada si arrampica sui tornanti, ma si spezza la cinghia del motore. La località più vicina per trovare un meccanico è a circa due ore e mezza di strada. L’autista Mauricio parte raccogliendo un passaggio da un camion che passa provvidenzialmente dopo circa mezz’ora e rimango da solo con qualche tozzo di pane e un po’ d’acqua. Il sole è ancora alto ma non riesce a scaldare l’ambiente.

Il resto della troupe è più avanti, ma non c’è campo telefonico per avvisare della nostra brusca fermata. Costretto a rallentare la mia corsa, mi ritrovo ad abbracciare il tutto con lo sguardo, a percepire i suoni e gli odori della vita in un ambiente che sembrava deserto. Mi accorgo che il silenzio libera gli occhi e il cuore. E così, con tutto me stesso, riesco ad andare oltre l’umano visibile. Rallentare si trasforma in contemplazione e ascolto totale di un creato diverso, diventa scoperta dei particolari.

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L’attesa di un meccanico diventa meditazione, diventa un fermarsi sul senso di scrivere a casa degli altri, in terre remote tra popoli che si rivelano solo quando ci sei. Seduto su un cespuglio quasi non faccio più caso al polverone sollevato dai rari mezzi che passano su quella pista sterrata ad oltre duemila metri di altitudine. Non mi rifugio più dentro l’abitacolo del fuoristrada e così la polvere piano piano entra a far parte del mio vestiario e dei capelli.

Ad un tratto si materializzano una bambina e il fratellino che risalgono il costone raccogliendo erba. Non è un’allucinazione. Sono persone vere. Forse riesco a scorgerle perché ho gli occhi liberi. Sono molto povere, infagottate di abiti per proteggersi dal freddo delle alte quote boliviane. I volti sono bruciati dal sole delle alture. Non sembrano meravigliate di incontrare una persona molto diversa da loro e neanche mi fanno festa. Ripassa un camion e riparano solo gli occhi dalla polvere alzata dal mezzo. Per loro è un gesto quotidiano, per me è eccezionale.

La bimba mastica qualche parola di spagnolo. La sua lingua madre è un’altra. Parlo un po’ con lei e continuo a rispolverare il castigliano della mia infanzia migrante in Venezuela. Le chiedo se va a scuola e lei mi risponde di sì, che ogni mattina si alza quando il giorno comincia a prendere il posto della notte, svolge qualche lavoretto domestico e poi – indicandomi un punto indefinito all’orizzonte – dice che cammina tanto per andare a scuola perché è molto lontana da casa.

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Quella mattina, però, niente scuola e rimane evasiva quando le chiedo perché. Anzi, abbassa lo sguardo e continua a raccogliere erba insieme al fratellino che non comprende lo spagnolo. Capisco che non è continua la sua frequenza scolastica. Poi mi dice che è quella la sua vita abituale. I bisogni di casa hanno la priorità e non importa che sia una bambina con i diritti all’infanzia e allo studio. È nata ed esiste, ma esiste solo per chi la incontra. Mi chiedo se può esserci un’analogia con quel bimbo nato duemila anni fa a Betlemme. Non trovo la risposta.

La osservo mentre cerca i fili migliori di erba tra le rocce del costone e continuo a meditare su quell’incontro cercando altre parole per riprendere la conversazione. Non le trovo e continuo ad osservarla. Cerco di strappare un sorriso alla bimba, ma non ci riesco. Non mi rimane che osservare i suoi gesti e il suo sguardo un po’ imbronciato mentre porta a termine quella parte della sua missione quotidiana.

La bimba e il fratellino girano le spalle per andare via, ma non capisco quale direzione prendano. Il mio sguardo li perde. Arrivati dal nulla, spariscono nel nulla.

La temperatura scende, ma non avverto più il freddo. La luce del giorno si abbassa. L’orizzonte si oscura, lo sguardo è dentro di me e l’infinito di Dio mi riempie. A notte fonda torna Mauricio con il meccanico. Il fuoristrada riparte e il mio cuore rimane su quell’altura. Ripenso alla bimba, al nostro dialogo di poche parole e soprattutto all’incontro dei nostri sguardi, più eloquenti di tante parole. Gli esperti potrebbero chiamarla intervista breve, un fuori programma. Per me è una delle più profonde meditazioni sull’umano lontano, uno dei momenti più umanizzanti del mio giornalismo.

 

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Ultima modifica: Dom 29 Dic 2019