#lamiascintilla/4 - La vocazione del giornalista

Il sacro fuoco dell’informazione mi scorreva nelle vene come la Nutella, quand’ero appena dodicenne. In realtà, non avevo la più pallida idea di cosa significasse «fare informazione», ma dentro di me c’era qualcosa che mi spingeva a donarmi agli altri, a fare qualcosa per la comunità.

Ho cominciato a scrivere per il giornale della comunità del Carmine di Carlentini, Poi, con un amico d’infanzia, entrambi militanti nell’Azione Cattolica della Parrocchia Immacolata Concezione, anch’egli giornalista, iniziammo a pubblicare, con il ciclostile della Parrocchia un foglio di notizie per la comunità. Quindi nel dicembre del 1982, due sacerdoti dell’Arcidiocesi di Siracusa su indicazioni dell’allora Arcivescovo Calogero Lauricella fondarono il settimanale cattolico d’Informazione “Cammino”. Nel corso di alcuni incontri avevano contattato alcuni parroci e chiesto indicazioni per coinvolgere i giovani a collaborare con il settimanale raccontando la vita della parrocchia. Da allora iniziò un ‘esperienza di volontario e di servizio e successivamente di un mestiere, ma non come tanti. Il giornalismo non é un lavoro che fai andando a lavorare alle 9 del mattino e uscendone alle 5 del pomeriggio; è un mestiere, un atteggiamento verso la vita che muove dalla curiosità e finisce col diventare servizio pubblico: è missione.

Una missione costruita anno dopo anno che mi coinvolse a tal punto a lasciare l’Università, al terzo anno, e di dedicarmi al mestiere più bello e affascinante del mondo. Non è un semplice mestiere non un modo di guadagnarsi da vivere, ma qualcosa di più, che ha una grande dignità e una grande bellezza, perché è consacrato alla ricerca della verità. Ecco il suo valore morale, avvertibile nel modo di raccontare, nel presentare i fatti. Certo la scuola, anche una scuola ad hoc, aiuta, ma è propedeutica, perché nessuna scuola potrà mai insegnarti la missione, non ti dà quella cosa in più di cui hai bisogno: la vocazione. E certe scuole di giornalismo mi hanno fatto l'impressione di essere frequentate da seminaristi senza vocazione. Se uno fa il meccanico e lo fa bene, nulla da dire; ma se uno fa il prete, per farlo bene deve avere qualcosa in più. E il giornalista è come il prete: deve avere la chiamata, la vocazione, sentire la missione. Così è stato per me. Senza vocazione non è un mestiere da fare.

Nel 1993, dopo l’iscrizione all’Albo dei Giornalisti, mi venne proposta la collaborazione da Carlentini per il Giornale di Sicilia, il più antico quotidiano dell’Isola. Due anni dopo la direzione del Giornale mi chiese di occuparmi delle città di Lentini, Francofonte, Augusta, Melilli e Sortino seguendo i fatti di cronaca politica, nera e giudiziaria, ma anche di sport e tempo libero, cercando di mettere al centro l’uomo e il rispetto della dignità. Un mestiere che mi ha permesso di entrare in contato con uomini e donne del nostro tempo, di sfaldare la suola delle scarpe andando nelle periferie dei quartieri delle città. Nel 1998, e fino al 2002, ho avuto la possibilità di lavorare gomito a gomito con i redattori dell’ufficio di corrispondenza del Giornale di Sicilia. Un’esperienza altamente formativa che mi ha permesso di seguire tutti i fatti di cronaca e di mafia.

Nel 2004, dopo aver seguito l’iter per l’assegnazione dei beni confiscati alla mafia (dall’accertamento alla confisca, dall’assegnazione alla riconversione da Cosa nostra a Casa nostra, la nascita della fattoria della legalità) vengo minacciato dal clan e per due anni sono stato seguito dalle forze dell’ordine come obiettivo sensibile. Non ho avuto paura e ho continuato a raccontare e scrivere. Da allora, pur continuando a collaborare con il Giornale di Sicilia e con il settimanale Cammino, ho avuto diverse collaborazioni in ambito regionale e nazionale,che mi hanno permesso di raccontare il territorio. Adesso non vi nascondo, però, la mia delusione il mio risentimento, la mia tristezza dinanzi allo stato del giornalismo italiano, dove ho la percezione che ci sia qualcosa, se non proprio di bacato, di distorto. Certo ci sono colleghi bravi e dignitosi, che apprezzo e stimo; ma complessivamente trovo una contiguità, un ossequio, un servilismo nei confronti del potere che sono il contrario di quel concetto di 'quarto potere' che dovrebbe caratterizzare il lavoro/mestiere del giornalista. E se uno è distante dal potere, se è economicamente indipendente, ne acquista in dignità, e dal potere è rispettato.

Ultima modifica: Mer 21 Ago 2019