Quel #faro che un giornalista ha aiutato di nuovo a far splendere

La mia #ParoladelNatale, quest’anno, è #faro. Faro come quel fascio di luce azzurra che si é stagliato nella notte del primo anniversario della tragedia di Corinaldo, in piazza del Terreno, nella quale chiunque, nelle lunghe ore che hanno accompagnato la città verso l’alba, ha potuto lasciare una preghiera, una parola, un pensiero, un ricordo.

Il #faro è un simbolo di rinascita, di difficile ritorno alla vita. Ebbene, un #faro si è acceso, quel sabato mattina, in una scuola, quella frequentata da Mia (nome di fantasia), una ragazza che quella sera, alla Lanterna Azzurra, c’era, costretta a muoversi sopra il tappeto umano calpestando l’orrore. Anche lei ha fatto quello che tanti altri hanno cercato di fare: caricarsi sulle spalle corpi di altri ragazzi trascinandoli verso le ambulanze, come fossero sacchi di cemento. Ha fatto così fino a quando ha potuto. Poi il buio. Per quindici giorni è rimasta chiusa nella sua stanza senza parlare, poche lacrime e il senso dell’orrore appiccicato addosso, come uno strato di colla.

Con il tempo le cose sono migliorate, ma di poco. L’incubo era sempre lì. Bloccata. Un’altra vita. Un giorno è successo qualcosa, partecipando a un incontro, a scuola, al quale era intervenuto Luca Pagliari, giornalista senigalliese che da anni gira le scuole curando progetti educativi. Un professionista, un padre, che ha la capacità di arrivare dritto al cuore dei ragazzi. “Al termine – racconta Luca – questa ragazza mi consegna un biglietto scritto con una calligrafia precisa e rotonda: “La vita è fuori da una cella 2x3. Rinchiusa nella mia prigione mentale, gli occhi sono le finestre da cui guardo il mondo bruciare”.
Così i due si parlano e lei comincia a liberarsi, come non era riuscita a fare neanche davanti a tanti psicologi.

Luca le chiede se sia disposta ad accompagnarlo in una scuola di Ancona, che era frequentata dal suo amico Daniele, scomparso alla Lanterna Azzurra. Mia accetta. L’aula magna è strapiena. Ci sono, anche, i familiari di Daniele. È lì che si siede Mia. Arrivano le undici e, quasi al termine, Mia, dopo un anno, decide di mettere il cuore oltre l’ostacolo, evadendo finalmente da quella prigione nera e lercia.

Alza la mano, abbandona la sedia, prende il microfono e guardando la platea comincia a parlare.
Non è una testimonianza", dice Luca. È una liberazione. Non ci risparmia un solo dettaglio perché esattamente dopo un anno è arrivato il momento di fare piazza pulita.
Racconta, a tratti prende pause, scendono le lacrime ma oramai è fatta. Il dolore è stanato, preso a calci nel culo e lanciato lontano.

Nei momenti più duri della narrazione si aggrappa a quel suo filo di voce ma non molla, esattamente come quella sera quando trasportava corpi all’esterno di un magazzino travestito da discoteca.

Mia finisce di parlare, è spossata, viene coccolata, i ragazzi l’abbracciano, una docente le dice “sei il nostro regalo di oggi”. Anche lei si è fatta un regalo grande e confida: “Mi sono finalmente liberata. Ce l’ho fatta. Mi viene anche da sorridere, incredibile ma rido”. Così Mia torna dal papà, felice, dopo tanta angoscia: ritorna, in famiglia, una figlia ritrovata.

Ultima modifica: Ven 27 Dic 2019