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GIORNALISMO COME ATTIVISMO, DUE CASI DAL CONTINENTE AFRICANO

1ba3-vertGiornalismo come attivismo. In Africa molto spesso fare il giornalista non è solo una scelta professionale, è decidere da che parte stare, come e con quale missione. Per alcuni è molto più di un mestiere, insomma. Molto più di una passione. Nell’immenso continente di esempi di donne e uomini che denunciano abusi, storture del sistema, ingiustizie ce ne sono molti. E molti di loro finiscono sotto il giogo della censura, in carcere o, qualche volta, spariscono.

Due soltanto di questi esempi aiutano a capire cos’è il giornalismo come attivismo in Africa.

Il primo è Andrew M. Mwenda, giornalista ugandese, fondatore tra l’altro di uno dei quotidiani più letti nel Paese, The Indipendent. Una fonte di informazione indipendente – appunto – e spesso “cattiva” nei confonti del potere. Diverse volte Mwenda è stato arrestato o messo sotto accusa per le sue critiche contro il presidente Museveni e le autorità. Ma la sua vera battaglia è quella contro gli aiuti occidentali all’Africa. Il giornalista ugandese, da anni, è una delle voci critiche più infiammate sul sistema – e la stessa ragion d’essere – degli aiuti, che di fatto – dice – continuano a tenere il continente in uno stato di necessità e di dipendenza.

La malattia più grave che affligge l’Africa? Non l’AIDS, la malaria, la denutrizione. La malattia più grave che affligge l’Africa sono gli aiuti. Sono quelle persone come Bono o Bob Geldof, con il loro interessamento stucchevole e “promozionale”, che hanno contribuito a danneggiare l’Africa. Anzi, addirittura, con i fondi raccolti nel corso del celebrato ma controverso Live Aid, hanno permesso a dittatori come Mengistu di acquistare armi sofisticate da usare contro il proprio popolo. Sono le politiche del debito della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale a cronicizzare la “malattia” del continente africano. E sono anche le ONG, le Charity – afferma il giornalista ugandese – che non fanno che accrescere la mancanza di fiducia in se stessi creando, ovviamente, uno stato di dipendenza senza fine.

La libertà dei giornalisti attivisti africani sta anche in questo: liberarsi dalle barriere mentali e da quel complesso di inferiorità – slave mentality – di cui tanti pan-africanisti hanno sottolineato le cause e gli effetti. Liberarsi per pensare e dire cose fuori dal coro. Per esempio criticare – come fece appunto Mwenda – il presidente Obama per aver usato toni e termini paternalistici, nel corso della sua ultima visita in Africa, nei confronti di alcuni leader africani e della corruzione imperante nei loro Paesi. “Mind your business” – Fatti gli affari tuoi – aveva risposto dalle pagine di Al Jazeera. Un articolo pieno di analisi approfondite sulle ipocrisie degli USA, sui danni provocati a quella democrazia che vorrebbero salvare, sulle complicità e appoggi a crimini e dittature. In Africa, appunto. Il giornalista fa appello alla sovranità delle nazioni, ma soprattutto, al diritto dei popoli africani di essere lasciati liberi da interferenze straniere. Interferenze sempre travestite da buone intenzioni, ovvio.

Quella di Mwenda è una vera e propria battaglia che mira a liberare il continente dall’ipocrisia degli aiuti, del sostegno di grandi e piccoli donatori che non facilitano la crescita dei Paesi africani e della sua gente ma che anzi – a suo dire – ne ostacolano l’indipendenza e l’autonomo sviluppo.

Il secondo esempio di giornalismo come attivismo proviene dall’altro lato del continente. Lui si chiama Anas Aremeyaw Anas, è di origini ghanesi ma le sue inchieste e investigazioni hanno riguardato anche altri Paesi africani e altri continenti. L’attivismo di Anas è rivolto soprattutto a smascherare i potenti o coloro che approfittano di posizioni di potere per circuire, frodare, danneggiare i più deboli. Lotta alla corruzione e dovunque ci siano violazioni dei diritti umani.

Sfidando anche le tradizioni locali e costumi radicati ma degradanti o letali per gli individui, come le varie forme di schiavitù, le uccisioni dei bambini per motivi rituali, lo smembramento degli albini – per il medesimo motivo -. Mentre altre inchieste hanno riguardato la compravendita di cibo inviato dalle organizzazioni ONU e destinato agli aiuti alimentari, la vendita di medicinali contraffatti, la corruzione delle forze dell’ordine, di esponenti della politica e persino degli apparati giudiziari. L’ultima importante investigazione – due anni di lavoro, pedinamenti, registrazioni con telecamere nascoste – ha riguardato l’Alta Corte di Giustizia ghanese. Oltre trenta i casi di corruzione dimostrati, magistrati che – dopo questo scandalo – si sono ritirati o sono stati costretti a dimettersi. Dall’inchiesta è stato tratto un documentario: Ghana in the eyes of God. E le sue inchieste sono finite su testate come Al Jazeera, la BBC o la CNN, nonostante il suo metodo – telecamere nascote, travestimenti – sia considerato poco ortodosso dal giornalismo di casa nostra.

Quello che fa non rende la vita facile ad Anas. Il giornalista investigativo - affiancato da un team – lavora  sotto copertura e non mostra mai il suo vero volto. “Anonymity is my weapon” dice. Noi lo abbiamo incontrato al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, dove – per la prima volta in Italia e invitato proprio da Voci Globali – ha spiegato perché c’è bisogno di un giornalismo come il suo nel continente africano e cosa significa un metodo di investigazione giornalistica basato su queste tre parole: naming, shaming, jailing.

Giornalismo come problem solving: questa è la peculiarità che rende così diverso il lavoro del giornalista ghanese. “Forse in Occidente si può considerare erroneamente il mio modo di lavorare o non ritenerlo etico o accettabile, in realtà siamo il prodotto della società in cui viviamo. In Africa le persone hanno bisogno di vedere risolti i loro problemi, di vedere che le ingiustizie sono non solo denciate ma punite. Non è un giornalismo di intrattenimento quello che cercano“.

Nell’intervista rilasciataci dopo quella ufficiale Anas scende ancora più nel dettaglio sui motivi sociali che stanno alla base della sua scelta e del suo giornalismo. Un giornalismo che deve lasciare un impatto, determinare dei cambiamenti nel sistema. Scoprire, diffondere e testimoniare affinchè le violazioni e i reati vengano non solo condannati ma, appunto, puniti. Perchè raccontare non basta per cambiare le cose. (Vociglobali)

KAZAKHSTAN: POLIZIA REPRIME MANIFESTAZIONI, FERMATI ANCHE GIORNALISTI

1ba2La polizia kazaka ha disperso le manifestazioni, non autorizzate, in tutte le principali città. La protesta anti-governativa è in corso da alcune settimane, contro la riforma della legge sulle terre. Nonostante i fermi preventivi e i cordoni disposti a protezione di tutte le principali piazze, l’opposizione al presidente Nursultan Nazarbayev, che guida il Paese dal 1989, continua. Fermati anche alcuni giornalisti di varie testate internazionali, che volevano seguire la protesta ad Almaty.(EUNEWS)

L'OSCE CONDANNA LE AGGRESSIONI A GIORNALISTI IN BOSNIA ERZEGOVINA

1s2L'aggressione al giornalista Petar Panjkota, reporter della televisione RTL Croatia, avvenuta sabato 14 maggio a Banja Luka, è inaccettabile e su di essa va condotta un'adeguata indagine. Lo ha dichiarato  a Vienna Dunja Mijatović, da poco riconfermata nel ruolo di Rappresentante dell'OSCE per la Libertà dei Media.“Condanno l'attacco a Panjkota e chiedo alle autorità competenti di indagare a fondo su questo incidente, e di perseguire la persona responsabile”, ha dichiarato Mijatović.In una giornata di forte tensione per le opposte manifestazioni convocate a Banja Luka da governo e opposizione della Republika Srpska, l'entità della Bosnia Erzegovina a maggioranza serba, anche i membri della troupe di BN TV, Danina Milaković e Pavle Ivanović, sono stati insultati, mentre il loro collega Vladimir Kovačević è stato minacciato sui social media.Panjkota è stato invece colpito alla testa da uno sconosciuto appena dopo aver terminato il proprio servizio in diretta.“I giornalisti devono poter seguire le manifestazioni in modo libero e sicuro”, ha detto Mijatović.Nel corso della sua visita ufficiale in Bosnia Erzegovina, nel luglio dell'anno scorso, la Rappresentante dell'OSCE per la Libertà dei Media ha sottolineato l'importanza di rafforzare la sicurezza dei giornalisti e di contrastare il clima di impunità.“Ci sono stati numerosi attacchi nei confronti di giornalisti in Bosnia Erzegovina, e i responsabili non sono ancora stati perseguiti”, ha dichiarato Mijatović.La Rappresentante OSCE ha accolto positivamente le immediate reazioni espresse dall'Associazione dei Giornalisti della Bosnia Erzegovina, della Croazia, e dal Press Club di Banja Luka. Tutte queste organizzazioni hanno condannato pubblicamente gli attacchi di sabato scorso.(EU)

NEGLI URALI GIORNALISTI PER PROTESTA VANNO IN ONDA CON UN CAPPIO AL COLLO

 1aba0Una singolare protesta è stata inscenata dai giornalisti di una TV regionale privata “Ural-Inform TV”. Dopo il blocco delle trasmissioni via etere, vanno in onda su web-tv e, per protesta, girano per le strade della città di Perm con un cappio al collo. I giornalisti denunciano la "manovra oscura" dei poteri forti locali che vorrebbero imbavagliare una voce indipendente.(RAINEWS)

A MILANO ARRIVA IL FESTIVAL DEL NON GIORNALISMO

1af8Tra il serio e il faceto, il 29 maggio debutterà a Milano il Festival del non giornalismo. L’appuntamento è al design Caffè con vista giardino, alla Triennale di Milano, dalle 18. E l’obiettivo è quello di ironizzare sulla professione giornalistica e sul festival di Perugia. Ma non solo.A promuovere l’iniziativa due giornalisti di Milano Finanza, Andrea Montanari e Marcello Bussi, che hanno messo insieme un po’ di colleghi dando vita all’evento senza workshop, meeting o altro. “Ci limiteremo a bere e brindare – spiega una nota – e ognuno pagherà per sé (prova ardua per un giornalista), per mantenere la nostra non libertà e la nostra non indipendenza dall’establishment e dai poteri forti del salotto buono”.Nel programma sono previsti anche alcuni “non riconoscimenti” a non giornalisti, scelti da una giuria-parodiacomposta da persone i cui nomi che rieccheggiano, con celia, le reali star del giornalismo italiano (Johnny Rayotta a Luke S’Offro, da Joe Crucianovic a Victor Feltriesky e Tranquilla Luikarellis). Nell’occasione verranno assegnati i premi al non giornalista dell’anno, alla giovane promessa del non giornalismo e alla non carriera. Le candidature possono essere inoltrate a: festivalnongiornalismo@gmail.com e l’hashtag ufficiale è #Fdng. (AFFARITALIANI)