The Post, il film. Due ore per ribadire il ruolo eternamente attuale del giornalismo.

Sparite. Proprio le parole che nella carta deontologica a me piacevano di più, sono, nelle rielaborazioni, sparite. Premettevano che il giornalista ha l’obbligo di “rispettare, coltivare e difendere” quel particolare diritto valido per “tutti” i cittadini: quello alla informazione. E ciò – ecco il punto - “nonostante gli ostacoli che possono essere frapposti al suo lavoro”. Capisco la necessità di prosciugare una “carta” tanto roboante quanto inutile: ma il richiamo al fregarsene degli ostacoli, lo avrei mantenuto.

Se ne fregarono, degli ostacoli, l’editore (una donna. Interpretata da un’ottima Meryl Streep) e il direttore (un notevole Tom Hanks) di un quotidiano (il “Washington Post”) che all’inizio degli anni Settanta proseguì la battaglia del concorrente “New York Times” nella pubblicazione di un carteggio esplosivo: documenti secretati che dimostravano quanto bugiardo fosse stato, sul Vietnam, il potere politico.
Il “Times” fu bloccato. Il “Post” proseguì. Tutti i giornali sostennero la lotta e giustizia ci fu. Gli “ostacoli” caddero. Fino alle conseguenze estreme.

Ci sanno fare, gli americani, su questo tipo di scenari. E Spielberg lo dimostra. Due ore per riflettere come sia cambiato il mondo in mezzo secolo (i telefoni fissi, il piombo, le rotative, la gente che aveva voglia di manifestare sdegno, gli editori puri che non temevano di rischiare in Borsa, i giornalisti che usavano cuore e scarpe). Due ore per ribadire il ruolo, eternamente attuale, del giornalismo.

Resta qualche dubbio su cosa accade oggi, con una carta sempre meno stampata. E non solo negli States a trazione Trump. Pensiamola, questa storia, riferita pure a un’Italia dove stiamo ricordando il quarantesimo di un delitto che tutti, per decenni, abbiamo raccontato in un modo mentre si è scoperto che le cose non andarono così. Qualcuno, in piazza, esprime qualcosa di simile allo sdegno?

Pensiamolo, il “The Post”, riferendolo ai tanti misteri di un’Italia che oggi non ha più neppure la voglia di vederli scoperti, quei misteri, tanto siamo tutti ormai anestetizzati, incapaci di reagire perfino agli scandali tirati fuori, con i vari “papers”, da un pur ottimo giornalismo investigativo. Pensiamolo riferito all’editoria, ma anche al nostro giornalismo, in una comunità che in strada al massimo può scendere per farsi in selfie con qualcuno del Grande Fratello. Per concludere che, da un pezzo, a rischiare di vincere non è certo il sacro fuoco del giornalismo e di una editoria puri ma, salvo eccezioni, la potenza degli “ostacoli frapposti”.

Toccato il fondo, forse potremo perfino iniziare la risalita: perché – parole non di una carta deontologica ma della Corte Suprema USA nella sentenza sull’azione legale promossa da Richard Nixon contro i due giornali – “la stampa serve chi è governato, non chi governa”. Già: appunto.

Ultima modifica: Lun 5 Feb 2018