Il bisogno di ascoltare e il dovere di raccontare

Sull’incontro in occasione di san Francesco di Sales che si è svolto qualche giorno fa a Roma, ospitiamo un commento molto attento di un giovane giornalista dell’Ucsi, Ludovico Falzone. All’evento abbiamo dedicato un primo articolo di Ermanno Giuca (ar)

Un simbolo che rappresenta il dolore di una società. La solitudine di un uomo in una piazza deserta, l’intero mondo che piange. Papa Francesco che nella sua benedizione urbi et orbi di quel piovoso 27 marzo 2020 pregava per lo smarrimento che la pandemia ha causato nell’essere umano, oggi, ci richiama all’ascolto. «L'ascoltare è il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione. Non si comunica se non si è prima ascoltato e non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare».

Le parole del Papa alleviano il dolore della ferita che lacera il giornalismo ormai da anni, sono un moto di riscatto per un mondo che è già da tempo invaso da ogni tipo di forma di divulgazione. Tuttavia si è cercato di ripartire da quel silenzio assordante di una piazza vuota. Il silenzio è, dunque, l’ascolto. Un impegno messo in pratica già da Andrea Monda, direttore de L’Osservatore Romano, che ha raccontato la sua esperienza in occasione della conferenza dal titolo “Il giornalismo e la comunicazione digitale post covid”, che anche l’Ucsi ha contribuito ad organizzare.

È proprio la figura dell’ospedale da campo come metafora della Chiesa che si prende cura del popolo che è stata interpretata dalla redazione vaticana come un’occasione per raccontare storie. Il direttore Monda dice che l’idea è partita proprio dalle parole del Papa che ricorda che non esistono storie piccole, perché ogni storia ha una propria dignità. Dunque, come mosso da un istinto di sopravvivenza, dà il via ad una rubrica intitolata “Laboratorio dopo la pandemia”, uno spazio che la testata dedica alle storie che raccontano le difficili situazioni e conseguenze che il covid ha portato nelle realtà di ognuno. Questo spazio di lettura è un’occasione per riflettere sulla responsabilità di cui siamo investiti e sul peso che grava sulle spalle di chi è costretto a non dimenticare.

A questo proposito il direttore Monda cita il teologo Dietrich Bonhoeffer che ben interpreta l’impegno a cui non possiamo sottrarci: “Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in questo passaggio, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene?”. Imperativo categorico per una ripartenza condivisa, per una società che rinasce e per un futuro che ha bisogno di un passato. Ecco, la necessità di raccontare storie di persone, fare entrare il mondo dentro noi stessi attraverso l’ascolto, come condizione preliminare.

Nell’orrore che si cela dietro la pandemia, si scorge un’occasione di crescita come testimoniato da Monda. Ogni storia umana nasce dal rapporto stretto con l’evento drammatico, fin dall’antichità. Infatti le storie più eterne come l’Iliade di Omero e l’Edipo re di Sofocle, le cui trame sono intessute all’inizio del propagarsi di pestilenze, testimoniano lo smarrimento del popolo.

Tuttavia il lockdown, che ha bloccato il mondo, ha fatto emergere la consapevolezza del potere della comunicazione digitale e online, come sfida per valicare il muro dell’isolamento a distanza. Siamo isolati e nello stesso tempo in mezzo alla confusione mediatica dei social che catturano la nostra attenzione. Allora, per avere quella capacità di discernimento nell’ascolto, come dice il Papa, bisogna avere lo stupore del bambino e la consapevolezza dell’adulto. Da qui parte l’intervento di Mauro Ungaro, presidente della Federazione dei Settimanali Cattolici Italiani (Fisc).

Sottolinea soprattutto quanto sia stata forte la partecipazione dei lettori attraverso le testate online e i social, perché erano bisognosi di un porto sicuro a cui approdare, di qualcuno su cui riporre la propria fiducia e di qualcuno che raccontasse la loro condizione. Dunque, insieme alla redazione tutta, hanno cominciato a raccogliere le storie delle persone dei paesi, che spesso rappresentavano l’identità di piccoli centri, grati per avere un portavoce al loro grido di speranza. Ungaro racconta, infine, che quel flusso straziante di carri funebri che portavano le salme partito da Brescia è giunto fino ad un paesino della bassa friulana provvisto di un forno crematorio. Il vescovo, una delle poche persone presenti, quel giorno ha benedetto per tre ore tutte le bare e la comunicazione di questo mesto avvenimento ha conferito una carezza sul cuore a quelle persone che non hanno potuto dare l’ultimo saluto ai propri cari. Quella marcia della morte, oggi, si trasforma in flusso di solidarietà, insegnamento importante che la pandemia ha finora trasmesso. Suscita ancor di più la consapevolezza che attorno c’è tanta gente, tante realtà che, come i discepoli di Emmaus, chiedono di camminare verso Gerusalemme per incontrare la parola.

Ultima modifica: Sab 5 Feb 2022