Sulla riforma dei media vaticani una ricerca Luiss e un confronto pubblico. Guardando anche alla riforma della Rai.

Molto interesse alla LUISS di Roma per la presentazione di una indagine del Centro di Ricerca su Comportamenti e Tecnologie – X.ITE LUISS – in collaborazione con la Segreteria della Comunicazione del Vaticano. "Nuove tecnologie, nuovi modelli, nuove esperienze, nuove opportunità per organizzazioni e istituzioni".

Il titolo spiega la volontà di un accostamento multidisciplinare alla riforma dei media vaticani: il bisogno di trovare una sponda ai grandi cambiamenti in atto sia da parte della ricerca accademica, sia dal mondo dei media e delle grandi aziende che se ne occupano. Perché nessuno può affrontare una riforma partendo dalla “arrogante ignoranza” dei processi che la hanno preceduta.

Del resto mons. Viganò, plenipotenziario della comunicazione d’Oltretevere – ma sempre molto attento a sottolineare una convergenza di volontà sulla riforma che va ben oltre la sua persona, e che comunque ha pieno appoggio del Papa – non aveva mai nascosto di essersi ispirato a modelli reali di capovolgimento della struttura organizzativa di grandi imprese di comunicazione a fronte della rivoluzione digitale, oltre che alle opinioni degli studiosi. Il primo nome citato come modello era Disney, e infatti ritroviamo il colosso americano presente nella ricerca comparativa della LUISS insieme a New York Times, la White House dell’era Obama, oltre a ENI, Fondazione Veronesi e Save the Children Italia.

È probabile che il momento di presentazione della ricerca possa essere in qualche modo legato al prossimo decisivo passo che la riforma vaticana deve affrontare, quello dell’assorbimento delle nobili e vetuste strutture dell’Osservatore Romano e della Libreria Editrice Vaticana. Ed è possibile che le presenze alla LUISS di mons. Maffeis, responsabile della comunicazione CEI, e del direttore di Avvenire Tarquinio non siano state semplici cortesie, ma reale interesse per percorsi che potrebbero ripetersi.

Cosa emerge, in sostanza, dal raffronto dei diversi modelli? Prima di tutto la necessità assoluta di realizzare un approccio integrato, ricco di visione strategica e di adeguamenti tattici, al progetto di comunicazione di ogni organizzazione complessa, poco importa se si tratti di impresa o di istituzione. La questione etica, attraverso i valori che si vogliono trasmettere con il marchio – lo hanno sottolineato anche gli uomini d’azienda – non può mai essere trascurata e richiede coerenza, anche da parte delle individualità coinvolte nel processo comunicativo. La comprensione dei nuovi complessi meccanismi della comunicazione consente di “comportarsi meglio”, di realizzare azioni coerenti ai bisogni sociali.

Di fronte alla massa di comunicazione presente nel mondo contemporaneo, dopo l’avvenuto sorpasso, ad esempio, della pubblicità in rete rispetto a quella tradizionale, il focus si sposta oggi sulla attenzione, sul meccanismo dei super-stimoli che è in grado di ottenere il superamento della soglia dell’attenzione. Ma stimoli incoerenti rispetto ai valori possono essere boomerang: il caso recente dello spot in cui una madre viene annientata da un asteroide per aver criticato una merendina ne è un esempio.

Analisi dei costi e dei benefici, strumenti tradizionali di marketing, costante analisi dei risultati, attenzione privilegiata alle comunità coerenti con il progetto: sono alcuni degli elementi essenziali di un progetto di comunicazione integrata. Al centro di tutta questa complessità si trova dunque un modello organizzativo, corredato da un approccio tecnologico e logistico, che renda possibile, all’interno dell’organizzazione, la presenza di flussi di comunicazione coerenti con quella esterna. Infatti se la struttura non si adegua, anche a costo di trasformazioni profonde, con le nuove opportunità transmediali non potrà fornire una risposta coerente. La decisione su quali percorsi specifici privilegiare per ogni notizia, ha esemplificato mons. Viganò, deve avere origine unica, altrimenti si rischiamo contraddizioni.

Una visione in ottica strettamente giornalistica di questo approccio integrato e sistemico alla evoluzione delle grandi centrali di comunicazione è estremamente interessante, pone problemi rilevanti e esige decisioni.
Mi pare indubbio che l’efficacia e la economicità sono rese indispensabili dal nuovo assetto tecnologico, ancora certo non assestato, e che una visione lungimirante e coraggiosa delle soluzioni possibili – penso alla crisi dei giornali e alle difficoltà delle imprese radiotelevisive – debba essere supportata. In questa logica, ad esempio, si deve insistere perché la RAI affronti finalmente la sua riforma organizzativa: già troppe risorse sono state sprecate, anche nell’adeguamento tecnologico, in assenza di un progetto organico unitario.

Ferma restando una forte domanda di riforme strutturali, credo però che si debba richiamare il mondo della comunicazione professionale, compresa l’accademia che in qualche modo lo supporta in questa fase complessa, su due grandi questioni che trovano raramente attenzione. La prima è quella della definizione del perimetro valoriale all’interno del quale muoversi. Non tutti hanno, come il Vaticano, la “fortuna” di una fonte unica di volontà. Cosa significa garantire il pluralismo? Quali sono i suoi limiti? Perché chi è contrario alle vaccinazioni – è solo un esempio – non può essere messo alla pari di chi le vuole? Quale autorità decide questi limiti?

La seconda questione, legata alla precedente, riguarda le professioni e in particolare – ma non esclusivamente – quella del giornalista. Non è solo la necessità, in fondo banale, di adeguarsi ai nuovi percorsi tecnologici e organizzativi e di dover convivere con altre professionalità su un piano paritario. Quello che viene richiesto oggi è il continuo raffronto tra responsabilità personale e gli esiti di processi di lavoro così complessi da non consentire riscontri immediati.
Mi pare evidente che la prima questione richiede risposte di natura pubblica, istituzionale. La seconda richiede un surplus di consapevolezza e di formazione, e soprattutto un deciso avvio di buone pratiche di analisi del proprio lavoro, in termini di mediaetica, all’interno delle comunità professionali, quelle che noi continuiamo a chiamare “redazioni”.

foto: AgenSIR

Ultima modifica: Lun 4 Set 2017