Professione

Le notizie che riguardano il giornalismo e la comunicazione

Come sta cambiando il giornalismo nel web. I dati di Digit 2016

Linguaggio, social network e strumenti digitali, ma anche diritto, etica e deontologia: sono stati tanti gli argomenti affrontati a Digit 2016, appuntamento sul giornalismo digitale che si è tenuto a Prato. Tra i temi affrontati in questa edizione anche quello del rapporto tra linguaggio e digitale, in un incontro tenuto da Carlo Bartoli, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Toscana e Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca. “Il rapporto tra lingua italiana e il web non è facile – ha spiegato Marazzini – la lingua italiana infatti ha una grande tradizione letteraria e tende quindi ad essere retorica mentre i nuovi modelli di oggi richiedono velocità e semplificazione, aspetti più consoni alla lingua inglese. Noi ci stiamo abituando piano piano”. Il linguaggio del giornalismo sul web infatti dovrebbe essere chiaro, preciso coerente e semplice ha spiegato Bartoli, adattandosi così al mezzo di comunicazione e alla sempre maggiore crescita del mobile, ma senza diventare sciatto. L’uso delle parole è importante anche sul web e quindi è necessario scegliere il linguaggio con attenzione anche per evitare ad esempio di fomentare odio o di usare termini impropri, aspetto che ricade poi anche nel tema dell’etica del giornalismo.
“Il diritto all’oblio non è legato al concetto di tempo ma all’autodeterminazione informativa della propria identità digitale – ha spiegato, inoltre, l’avvocato Deborah Bianchi, autrice del vademecum su privacy e cookies per Odg Toscana.
A chiusura dell’incontro e’ stato presentato il II Rapporto sul Giornalismo digitale, realizzato per conto dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti dal gruppo Giornalismi. All’indagine erano state chiamate a partecipare 1300 testate locali online per definire il quadro dell’informazione locale e iperlocale in Italia. Il 54% delle testate fa informazione generalista, 42 testate hanno dichiarato di non avere alcun dipendente, 32 di averne da 1 a 6, e 5 da 10 a 30 dipendenti. Molto diffuso invece il ruolo dei collaboratori: 45 testate hanno dichiarato di avere da 1 a 5, 22 tra 6 e 10 e 12 oltre 10. Di queste per 34 si tratta di collaborazioni a titolo gratuito, 30 collaborazioni occasionali, 18 con partita iva, 9 con cessione diritti e 7 con contratti co.co.co. “Il fatto di puntare su informazione generalista non aiuta le testate locali che si trovano a dover competere con i grandi colossi dell’editoria – ha spiegato Pier Luca Santoro, esperto di marketing e comunicazione, che ha presentato i dati – Quello che emerge dalla ricerca è che la maggiore preoccupazione per queste testate è la mancanza di prospettive economiche che di fatto rischia di produrre informazione meno libera”.

Ogni parola pesa/2. Come la Rai raccontava l'alluvione di Firenze

Anche io, quando Antonello scriveva quelle righe su informazione e terremoto, pendevo dalle tv saltellando dall’una all’altra per capire cosa stava succedendo in quelle zone interne e montane di un’Italia così spesso frequentata da terremoti grandi e piccoli. E pure io, nel massimo rispetto di colleghi chiamati all’improvviso in un ruolo difficile, ho avuto le stesse impressioni del nostro vicepresidente.
Sono balzato quando il tg dell’ottimo Mentana prima, comunque con cautela, ha passato un lancio di agenzia che annunciava “morti” e poco dopo è stato costretto a far presente che, quel lancio, la stessa agenzia lo aveva “annullato”. Facile intuire cosa stesse dietro una notizia data per battere sul tempo la concorrenza ma poi, e per fortuna, rivelatasi falsa.
E mi è tornato in mente, a proposito di disastri “naturali” (un terremoto lo è di sicuro. L’alluvione 1966 lo fu un po’ meno) la asciuttezza e l’efficacia di due colleghi davanti all’acqua, e al fango, che avevano invaso Firenze in quel 4 novembre di mezzo secolo fa: Marcello Giannini e Paolo Bellucci.
Il primo con l’escamotage del microfono fatto scendere in via Cerretani, dalle finestre della sede Rai, per far ascoltare, a chi nelle stanze Rai di Roma forse non ci credeva, il rumore di un fiume impazzito. Il secondo con l’asciuttezza e l’eleganza dei suoi racconti su una Firenze offesa ma non domata. Giornalismo di altri tempi per media di altri tempi.
Da qualche anno, sulla montagna pistoiese ci siamo inventati un piccolo premio giornalistico nel ricordo del compaesano Paolo Bellucci: un aspetto che di lui mi ha sempre colpito è la sua ritrosia a farsi riprendere in volto. Forse era solo timidezza. Ma forse era anche il desiderio di non diventare troppo protagonista, lui, rispetto al “peso” del protagonista vero: le notizie da raccontare.

Ogni parola pesa, nel racconto in tempo reale delle emergenze

Seguo da casa la notizia della nuova forte scossa di terremoto che ha colpito l’Italia centrale (e quando scrivo sono trascorsi pochissimi minuti).
Accendo la tv, e i toni sono esasperati. Un giornalista incalza il povero sindaco che cerca solo di capire meglio la situazione, un altro prova a collegare immediatamente questo sisma con la faglia che ha generato morte e distruzione ad agosto. E poi c’è quello che racconta la grande paura provata nello studio di Roma, a distanza di decine e decine di chilometri.
Vado al computer e le pagine di tutti i siti principali si sono trasformate in giganteschi poster con notizie ancora frammentarie. I social, poi, sono impazziti un’altra volta e vi si trova davvero di tutto.
In una situazione drammatica (e di cui in questo momento nessuno conosce ancora la portata) questa è l’informazione in tempo reale che ci piove addosso e che tutti noi cerchiamo ovunque, con ogni mezzo. Concitata, adrenalinica, non verificata fino in fondo (e non verificabile, visti i tempi ristrettissimi con cui viene rilanciata), fonte di ansia e di paure per chi soprattutto ha familiari e conoscenti in quei luoghi. E’ un racconto intenso e vibrante, come se ognuno a modo suo spiegasse la trama di un film dal finale incerto. Dimenticandosi a volte che anche una sola parola pesa, quando si descrivono fatti come questo, e quando si generano sentimenti profondi nell’opinione pubblica, mai così vasta e incollata (letteralmente) ad uno schermo.

A Roma il Salone dell'Editoria sociale

È dedicata al tema "Mediterraneo oggi" con il sottotitolo “accogliere bene” l'ottava edizione del Salone dell'editoria sociale, l'iniziativa promossa dalle Edizioni dell'Asino, dalla rivista Lo Straniero, dalle associazioni Gli Asini e Lunaria in collaborazione con Redattore sociale e Comunità di Capodarco. Saranno circa cinquanta 50 incontri, tra tavole rotonde, presentazioni di libri, video e dibattiti promossi da case editrici e organizzazioni del terzo settore, e saranno ospitati negli spazi di Porta Futuro a Roma, dal 29 ottobre al 1 novembre. Un'occasione per riflettere sulle «mutazioni sociali, culturali, economiche e geopolitiche di un'area che sempre più ci interroga sulle contraddizioni del nostro tempo», ma che offre anche «una speranza di rinnovamento», spiegano Goffredo Fofi e Giulio Marcon, ideatori del Salone.
"Per una mappa del Mediterraneo" è il titolo della lectio magistralis con cui il 29 ottobre il geografo Franco Farinelli inaugura idealmente il programma, ricco di incontri sui temi di politica estera: la "Libia, paese allo sbando"con lo studioso Francesco Strazzari e i giornalisti Alberto Negri, Francesca Mannocchi e Daniele Raineri;"la Turchia dopo il tentato golpe" con Lea Nocera, Fazila Mat e Luigi Spinola; la discussione su genesi e futuro dello Stato islamico con Marina Calculli, Emanuele Giordana e Fulvio Scaglione, in occasione dell'uscita del libro di Giuliano Battiston "Jihad. Lo Stato islamico e il ritorno di al-Qaeda".
Molti gli incontri dedicati ai temi dell'immigrazione, tra cui la tavola rotonda sull'accoglienza promossa dall'associazione Lunaria e quella sui limiti e le buone pratiche dei media con i giornalisti Giovanni Maria Bellu, Tommaso Di Francesco, Marina Forti e Marco Tarquinio, direttore di Avvenire.

Immigrazione: quando certa comunicazione fa alzare i muri

Quanto sta accadendo in questi giorni in provincia di Ferrara – dove, a Gorino, la popolazione si è ribellata all’accoglienza di un gruppo di donne rifugiate con i loro bambini – è probabilmente frutto di strumentalizzazioni politiche, ma anche di un sistema dell’informazione che dà dell’immigrazione una narrazione drammatica, esasperata e fuorviante.
In un libro uscito recentemente, Tracciare Confini (a cura di Marco Binotto, Marco Bruno e Valeria Lai, Franco Angeli 2016), sono raccolte le indagini sui principali mezzi di comunicazione fatte dal 2008 ad oggi. I dati sono per certi versi sconfortanti: l’immigrazione fa notizia solo quando rientra nella cronaca nera, e così si costruisce l’equazione immigrazione=criminalità. Ne nasce una narrazione per la quale «la semplice presenza dei migranti finisce per diventare un sinonimo di malessere e disordine, che non solo alimenta l’allarme sociale, ma è spesso all’origine di veri e propri fenomeni di panico morale». Come quello accaduto nella tranquillità della bassa ferrarese.
È vero che negli ultimi anni, dopo alcuni naufragi particolarmente gravi e il viaggio del Papa a Lampedusa, a questa narrazione si è affiancata quella del migrante come naufrago, che suscita pietà. Ma questa seconda rappresentazione non è abbastanza forte da scalzare la prima né da incidere sui pregiudizi delle persone, tantomeno sui comportamenti. Come dire: poverini... qualcuno se ne dovrebbe occupare, certo non noi.
Le ricerche citate analizzano i Tg nazionali e i giornali, ma chi frequenta i social media sa quanto questi siano il luogo dell’hate speech, dei discorsi d’odio nei confronti di chiunque, ma dei migranti prima di tutto. È qui che viene condiviso e quindi diffuso quanto di peggio appare sui media tradizionali, è qui che si moltiplicano i post che diffondono notizie manipolate o semplicemente false, ma ben confezionate per suscitare indignazione e rifiuto nei confronti dei migranti e sospetto nei confronti di chi li accoglie.
La società civile – ecclesiale e laica – reagisce come può, proponendo narrazioni alternative, ma si sa che è più facile credere alla menzogna che alla verità.
Un’operazione interessante è quella proposta da Medici senza Frontiere, che ha proposto L’Anti-slogan, una campagna in cui si “smontano” le dieci leggende più diffuse sull’immigrazione sfatandole una a una, con linguaggio semplice, oggettivo, sintetico. Le dieci leggende sono queste: gli immigrati portano malattie, li trattiamo meglio degli italiani, aiutiamoli a casa loro, hanno pure lo smartphone, sono troppi, sono tutti giovani e forti, rubano il lavoro, non scappano dalla guerra, sbarcano terroristi, sono pericolosi.
L’aspetto interessante di questa operazione è che si scopre come questi luoghi comuni siano facilmente smontabili. In teoria almeno. Perché l’opinione pubblica è un osso duro.

http://milionidipassi.medicisenzafrontiere.it/antislogan/)