Giornalismo e Coronavirus, 'un banco di prova per il nostro ruolo di servizio'. Intervista ad Adriano Fabris

E’ stato un fine settimana difficile, per tutti noi, alle prese con l’incubo del Coronavirus. La paura, legittima, in qualche caso si è trasformata in psicosi. Anche Adriano Fabris, professore di Etica della Comunicazione all’Università di Pisa, ne è convinto: “In giro, per strada, non si parla d’altro, la preoccupazione è diffusa nonostante ci siano tutte le informazioni e le rassicurazioni per poter affrontare correttamente la situazione”.

La percezione del fenomeno oggi è diversa perché ci sono i social?
“Si, perché i social danno informazioni che ciascuno può condividere con altri ma non è detto che chi dà una notizia o mette l’informazione da condividere sia esperto o persona competente”

E allora l’informazione giornalistica che ruolo ha?
“Io credo che questo sia il momento in cui debba riprendere ad avere un ruolo fondamentale, un ruolo civile di servizio. In eventi come questo sono indispensabili due filoni di informazione. Uno è la comunicazione pubblica e istituzionale, che deve dare tempestivamente le informazioni corrette: Poi naturalmente c’è il filone informativo dei giornalisti. Serve per l’approfondimento, per la corretta informazione, per una tempestiva analisi delle situazioni, a livello nazionale ma anche locale. Penso che questo sia un banco di prova fondamentale per ripristinare il ruolo centrale che il giornalismo deve avere, al di là dell’utilizzo pur indispensabile dei social”.

Serve una sorta di “alleanza virtuosa” tra gli scienziati e i giornalisti?
“E’ necessaria. Chi fa informazione ha la capacità di penetrare in un pubblico sempre più vasto, ma deve farlo rinunciando al sensazionalismo e alla volontà di diffondere il più possibile le proprie informazioni. Adesso significherebbe scherzare col fuoco, rischiare di creare un panico generale. Anche gli scienziati devono saper rinunciare ad usare un linguaggio solo tecnico. La gente allora non capirebbe e finirebbe con il preoccuparsi ancora di più”.

Il virus ha aperto una crepa nella nostra fiducia nella modernità?
“Siamo piuttosto in un contesto post-moderno e allora la crepa forse è nella post modernità. Il moderno è l’epoca in cui al centro c’è l’individuo che ritiene di poter controllare tutto. Il post-moderno è il momento in cui l’individuo comincia ad avere dei dubbi, proprio per quanto riguarda ò’individuazione di criteri e di principi generali di controllo. E oggi questi dubbi sono decisamente aumentati. Ci rendiamo conto che per quanto riguarda certi fenomeni (ambientali, climatici, ma che soprattutto sono legati alla nostra salute) noi davvero siamo degli apprendisti stregoni”

Nella foto (da governo.it) un momento dell'intervento del presidente Giuseppe Conte

Ultima modifica: Dom 23 Feb 2020