Comunicare le esperienze che si ispirano all'ecologia integrale

Pubblichiamo oggi un'ampia sintesi di un'altra parte della ricerca realizzata dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Pontificia Salesiana e dall'Ucsi (leggi qui la prima parte). Riguarda da vicino la comunicazione che si ispira all'ecologia integrale della Laudato Si' ed è contenuta nel volume “Dare Corpo alla Laudato Sì’. L’impatto dell’ecologia integrale nelle visioni e nelle prassi”, a cura di Vittorio Sammarco e Paola Springhetti (ed. LAS e UCSI, 2023).

di Vittorio Sammarco e Paola Springhetti

Sul territorio italiano ci sono molte realtà che nella propria identità e nella propria azione hanno inserito il paradigma dell’ecologia integrale. Sono realtà non profit e profit che perseguono obiettivi di inclusione sociale e creano lavoro per le persone fragili; svolgono attività produttive secondo metodologie sostenibili; realizzano buone prassi di economia circolare; recuperano e valorizzano territori e beni comuni.La Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Salesiana e l’UCSI (Unione Cattolica della Stampa Italiana) hanno realizzato un’indagine qualitativa, attraverso interviste semi-strutturate, su un campione di questi enti, scelti dalla “Mappa delle Buone Pratiche” che si trova nel sito della Settimana Sociale dei Cattolici. Si tratta di 27 esperienze, nella maggior parte dei casi enti non profit (21), negli altri casi piccole imprese. Sono stati intervistati i responsabili della comunicazione degli enti e delle aziende, o, in loro mancanza, i presidenti o i titolari delle aziende.
I risultati dell’indagine sono pubblicati nel volume Dare corpo alla “Laudato si’. L’impatto dell’ecologia integrale nelle visioni e nelle prassi (a cura di Vittorio Sammarco e Paola Springhetti, ed. LAS, Roma 2023)

1. LA COMUNICAZIONE DEGLI ENTI

Dalle interviste agli enti e alle aziende emerge un quadro della capacità comunicativa degli enti piuttosto fragile. Tanto nel non profit che nelle piccole aziende, la gestione della comunicazione segue quattro diversi modelli.

Il primo modello si affida all’occasionalità e alla casualità: il 42% degli enti non profit e il 33% delle aziende non ha né un ufficio stampa, né un’area comunicazione né un addetto costantemente impegnato in questo settore.

Il secondo modello è quello di chi, invece, nella comunicazione ha deciso di investire, dotandosi di una o più persone dedicate a questo. Riguarda solo l’11% circa delle realtà intervistate.

Il terzo modello, più diffuso (22% circa) del precedente, vede affidare a persone o ad agenzie esterne la cura della comunicazione, per motivi soprattutto economici.
COMUNICARE LE ESPERIENZE CHE SI ISPIRANO ALL’ECOLOGIA INTEGRALE. Sintesi della ricerca UCSI/UNISAL 2023 1

Il quarto modello è quello del fare rete, collaborando – in modo organico o su specifiche azioni – con altre realtà non profit, associazioni, strutture ecclesiali o con i partner istituzionali dei progetti.

La comunicazione istituzionale. La tendenza generale è a differenziare gli strumenti della comunicazione istituzionale, nella consapevolezza che ogni strumento può raggiungere target e obiettivi diversi.
Tutti gli enti interpellati, profit e non profit, hanno un sito; tutti tranne uno sono presenti sui social, soprattutto su Facebook, dove gestiscono almeno una pagina. Al secondo posto troviamo Instagram (60% circa), seguito a distanza da Twitter (18% circa) e Linkedin (15% circa). Non era obiettivo di questa ricerca valutare la qualità della presenza sui social e la sua efficacia, ma una semplice occhiata al numero dei follower, generalmente piuttosto basso, fa pensare che questi strumenti non siano sfruttati in tutte le loro potenzialità.
Quasi tutte le realtà interpellate fanno comunicati stampa, e i due terzi organizzano durante l’anno conferenze stampa o eventi a cui la stampa è invitata, quando ci sono occasioni e temi rilevanti e soprattutto quando è possibile invitare personaggi istituzionali o comunque conosciuti sul territorio.
Non sempre però c’è un coordinamento fra i vari strumenti di comunicazione istituzionale, per cui un terzo delle realtà intervistate non ha rilanciato sugli strumenti istituzionali le notizie contenute nei comunicati stampa. E in altri casi sono stati rilanciati solo sui social. Al contrario, c’è chi fa convergere nel sito tutte le notizie, coordinando tra loro i vari strumenti.

2. LA RICEZIONE DEI CONTENUTI NEL MONDO DELL’INFORMAZIONE

Il rapporto con i media è, in genere, piuttosto problematico.
Trattandosi di realtà piccole e medie, il rapporto con le testate giornalistiche è soprattutto a livello locale. In genere, organizzare conferenze stampe ed eventi “paga”: i comunicati diffusi tra l’informazione locale sono stati ripresi nel 90% dei casi, quelli (rari) diffusi a livello nazionale nel 60%.

Il problema nasce quando dalle testate giornalistiche ci aspetta approfondimento o almeno rielaborazione: spesso il comunicato viene ripreso così come è, a volte addirittura viene a chiesto agli enti di scriversi l’articolo completo.
Succede – sia pur troppo raramente per poterci contare – che siano i giornalisti delle varie testate a prendere contatto con le buone prassi, in cerca di storie e dati per le proprie inchieste. In questo caso, il contesto è quello dell’approfondimento e la spinta può derivare dal collegamento con una notizia di attualità o con un dibattito in corso. Questa è ovviamente un’opportunità, e in qualche modo anche una conferma dell’autorevolezza di cui si gode.

I temi difficili. Un altro ordine di problemi nasce attorno alla difficoltà di comunicare alcuni aspetti – o per meglio dire valori – del proprio lavoro. Il problema, insomma, è comunicare non tanto i singoli eventi o le singole iniziative, quanto il patrimonio valoriale che sottostà ad esse e su cui si fondano la mission degli enti non profit e il brand delle imprese che si ispirano alla “Laudato Sì’”. Il pericolo infatti è di finire in un unico calderone, fatto di retorica solidaristica e di greenwashing, all’interno del quale le identità si appiattiscono e diventa impossibile distinguere chi è solo abile nella comunicazione e chi invece costruisce davvero.

Anche i social non sono esenti da pericoli ed incidenti di percorso. Per esempio, diventano facilmente terreno di conflitto (e gestirlo non è facile), oppure possono respingere alcuni progetti e messaggi proprio per la loro natura: ad esempio ciò che ha carattere più strettamente culturale, difficilmente è ben accolto.

Su alcuni temi – come quelli ambientali – la comunicazione è più facile. Su altri – in generale quelli sociali – si evidenziano più problemi, anche perché ci si scontra con pregiudizi diffusi, che portano ad utilizzare linguaggi e chiavi di lettura pietistici che non rendono ragione delle innovazioni su cui si sta lavorando.

Le distorsioni. Non raggiunge un terzo (29,6%) la quota degli enti e delle aziende, che dichiara che nel rapporto con i giornalisti e con le testate non ci sono problemi. Un 40% circa degli enti denuncia di avere riscontrato distorsioni nel messaggio che intendeva comunicare. Una percentuale piuttosto alta, anche se non maggioritaria: quanto basta per alimentare la sfiducia che attualmente colpisce il sistema dei media.
Spesso le distorsioni riguardano l’identità stessa degli enti, la loro storia, il loro approccio al problema. Oppure riguardano aspetti più specifici, più “tecnici” se vogliamo, come il funzionamento dei bandi, lo sviluppo dei progetti, l’approccio specialistico ad alcune tematiche.
Il pericolo di distorsioni si annida anche nelle routine giornalistiche, nei loro tempi e ritmi, nella logica del “chi arriva primo”.

3. CONSIDERAZIONI FINALI

La strategia di comunicazione di un ente dovrebbe comprendere obiettivi di breve termine (promuovere un’iniziativa, raccogliere fondi, cercare volontari, vendere i propri prodotti...); obiettivi di medio termine (far conoscere il logo e i progetti, fare rete, costruire autorevolezza) e, soprattutto per il non profit, obiettivi a lungo termine (influenzare l’opinione pubblica, contribuire non solo a dare una risposta ai problemi, ma anche a rimuovere le cause delle disuguaglianze, dell’esclusione sociale o dell’inquinamento, diffondere stili di vita sostenibili...). L’importanza delle prime due tipologie di obiettivi è avvertita da tutti, ma non tutti riescono a strutturarsi di conseguenza. L’importanza degli obiettivi a lungo termine – cioè l’impegno culturale delle organizzazioni – sfugge a molti e a tutti paiono difficilmente raggiungibili, anche se la consapevolezza della necessità di esercitare un ruolo culturale ha sempre accompagnato il Terzo Settore.

Fare i conti con i diversi tipi di comunicazione. Molto spesso, tra i soggetti intervistati, sia profit che non profit, si nota una certa confusione tra diversi tipi di comunicazione. Spesso comunicazione equivale a “marketing”: un settore che risponde ad esigenze molto concrete, spesso anche di sopravvivenza dell’ente.
Inoltre spesso il confine tra comunicazione istituzionale e pubblicità è estremamente labile: la responsabilità, in questo caso, è delle testate giornalistiche, in perenne crisi economica, che a volte sembrano avere completamente abbandonato ogni deontologia e anche ogni orgoglio del mestiere.

Tra vecchie e nuove professioni. Dalle interviste emerge una tendenza a rinunciare – forse sottovalutandole – alle professionalità nell’ambito della comunicazione. È vero che spesso che si ricorre a professionalità “esterne”, ma resta la tendenza a lavorare “in casa”, senza iper- profilare troppo le competenze dei dipendenti e tenendo ampio il loro raggio di azione.
È da rilevare anche il cambiamento delle professionalità di cui si sente il bisogno: sono poche le realtà interpellate che si avvalgono di un ufficio stampa interno, ma quasi tutti hanno una figura che ricopre il ruolo del social media manager o del content editor o del responsabile comunicazione. Mentre fino a non molti anni fa la figura dell’addetto stampa sembrava quella più importante, perché “uscire sulla stampa” era considerato l’obiettivo principale delle strategie di comunicazione, oggi si preferisce un professionista a tutto tondo, che curi tutta la comunicazione digitale dell’ente (sito, social, newsletter) e magari sia in grado di scrivere anche una bozza di comunicato stampa.

Fare (anche senza comunicare). Colpiscono, tra le interviste, alcune nelle quali si dice che comunicare non è poi così importante, che l’importante è essere presenti sul territorio e darsi da fare. Proprio perché non c’è una stima immediata dei benefici che si ottengono nel comunicare bene, le priorità di investimento restano quelle orientate a raggiungere la mission. E anche gli strumenti di comunicazione messi in campo sono più che altro vetrine, in cui esporsi per raggiungere quegli obiettivi a breve termine cui accennavamo più sopra.

Un sistema dell’informazione fragile. Il problema è che, se da una parte ci sono degli enti e delle aziende fragili dal punto di vista della comunicazione, dall’altra parte c’è un sistema dell’informazione altrettanto fragile.
Sono soprattutto le testate locali a dare spazio a queste esperienze. Ma in questa fase in cui un po’ tutta l’informazione è in crisi, sia di modelli sia di risorse, anche quella locale si deve confrontare con grosse difficoltà, la maggior parte delle quali riconducibili alla sostenibilità dell’impresa e alla scarsità di risorse.

Da qui nascono alcune distorsioni del mestiere di giornalista, che dovrebbe basarsi su obiettività, accuratezza, verifica. Così, gli enti e le piccole imprese si trovano come interlocutori giornalisti pagati poco e a pezzo (quindi immersi nella logica della quantità più che della qualità) e spesso non professionalizzati, anche a causa del frequente turn over: si limitano a “passare” il comunicato o a volte non riescono cogliere il significato di alcuni aspetti più specialistici. Oppure si trovano davanti testate che chiedono agli enti di girare loro stessi le immagini degli eventi e di scrivere il pezzo, rinunciando così a ogni verifica o esercizio di critica. O, ancora, testate che offrono sì spazio, ma solo a pagamento, creando una confusione tra informazione/pubblicità.

Tutto questo porta a far crescere nelle realtà intervistate – nonostante i rapporti personali che sul territorio si costruiscono fra i loro operatori e quelli della comunicazione – lo scetticismo e la tentazione di fare a meno della mediazione giornalistica.

I criteri di notiziabilità. I tradizionali criteri di notiziabilità premiamo elementi come la drammaticità, la fama, il conflitto, la spettacolarità eccetera. Tutti elementi assenti nelle notizie che possono nascere da queste esperienze, che rispondono invece ad altri possibili valori notizia: la cura per l’ambiente, la responsabilità per il bene comune, il rispetto dei diritti, la coesione sociale... In fondo, è il noto problema delle buone notizie che non fanno notizia.
È da notare che spesso si citano, tra le testate su cui si è avuto spazio, quelle cattoliche: “Avvenire”, TV2000, Radio in Blu, i settimanali diocesani, Italia Caritas. Una considerazione a parte va fatta sulla Rai regionale, che viene citata in diverse interviste come una delle poche testate locali sì, ma di rilievo, che ha dato spazio a queste esperienze: un segnale positivo della presenza del servizio pubblico sul territorio.

Accanto al problema dei criteri di notiziabilità, si pone quello delle fonti. Il fatto che, quando gli enti organizzano un evento cui partecipano figure istituzionali, ottengano risonanza sui media, è probabilmente inevitabile, ma è anche espressione di un sistema dell’informazione ancora imperniato più sui luoghi di potere che sulla società civile: tema, questo, che meriterebbe una riflessione.
Insomma, ancora una volta torna il problema di come si esercita il mestiere di giornalista. In questo caso la scelta è tra un’informazione costruita in redazione, sulla base dei comunicati stampa che arrivano sui monitor, e una informazione fatta andandosi a cercare le storie, incontrando le persone e verificando le situazioni.

Ultima modifica: Dom 9 Lug 2023