Noi giornalisti come quei pastori di Betlemme...

Tra i tanti luoghi di Terra Santa che vengono evocati in questi giorni che ci separano dal Natale, uno mi sta particolarmente a cuore. Sorge poco lontano dalla Basilica di Betlemme, nella piana ricca di pascoli che risuonava un tempo dei belati delle greggi. È il Campo dei Pastori, il luogo appunto dove gli angeli hanno dato il lieto annuncio della venuta di Gesù agli ultimi tra gli ultimi, i pastori...

Un santuario, oggi, sorge sul luogo identificato dalla tradizione come teatro di quell’annuncio. Un edificio relativamente moderno, costruito però accanto alle rovine di un antichissimo monastero bizantino.
Da dove nasce la predilezione per questo luogo? E cosa ha a che fare, quell’angolo di Terra Santa, con la comunicazione e il giornalismo?
Quando visito quel piccolo santuario, costruito da un architetto italiano di nome Antonio Barluzzi, non posso fare a meno di guardare l’angelo in bronzo che adorna la facciata, quelli adoranti all’interno e i dipinti che, raccontano quella notte. E mi sorprendo a pensare: in quella notte popolata di stelle, in cielo andò in onda un tg speciale dedicato proprio a quei pastori, erranti per le strade di Palestina. Proprio per la loro promiscuità con gli animali (l’ebraismo fissa una serie di regole ferree circa la «purità» e l’«impurità») non erano neppure degni di soggiornare entro le mura della piccola città di Giudea. Eppure quegli angeli «inviati speciali» di quel tg speciale, andarono a cercare proprio loro. E confezionarono un reportage destinato a segnare la storia del mondo.
Destinatari di quella comunicazione non furono i potenti della terra, i politicanti, i banchieri, ma i più piccoli, addirittura i disprezzati. Forse questo particolare può dire qualcosa anche a me oggi, nel mio lavoro quotidiano? Forse che i piccoli, gli emarginati, i disprezzati (coloro i quali abitano le periferie dell’esistenza, direbbe Papa Francesco) sono i primi destinatari del mio impegno quotidiano?
Ma ecco la sorpresa. Gli stessi pastori, nel brano evangelico, da «recettori» dell’annuncio, diventano a loro volta «comunicatori della buona notizia». Come? Andando di persona a vedere che fosse tutto vero (controllarono le fonti, diremmo oggi), primi interpreti di un sano citizen journalism. Così racconta il Vangelo di Luca: «"Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere". Andarono dunque senz'indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro».
Questo andare, questo vedere, questo conoscere, questo ridire e riferire, mi provoca ogni volta stupore e meraviglia. Stupore perché la comunicazione della buona notizia si diffonde (nonostante i limiti dei comunicatori) a cerchi concentrici e diventa – se ci crediamo - qualcosa d’inarrestabile. Meraviglia perché ieri come oggi siamo tutti parte di una vasta rete, di un mondo social fatto di tante sensibilità e ricchezze (o povertà), ugualmente chiamato a operare in onestà e coscienza per il bene di tutti.
Siamo certamente più simili ai quei pastori 'sgarrupati' che agli angeli, noi giornalisti e comunicatori moderni. Ma la cosa, a ben vedere, se il modello è quello dei pastori di Betlemme, non dovrebbe affatto dispiacerci.

Ultima modifica: Sab 24 Dic 2016