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Epifania, la gioia della notizia vera. I magi, "inviati speciali" ante litteram

Non è difficile rileggere in chiave di comunicazione l’avventura dei tre strani personaggi che il vangelo di Matteo, unico tra i sinottici, ci presenta come “magi”. L’intero racconto, in effetti, è costruito intorno a un “segno”, quello della stella, che è per eccellenza “segno di comunicazione”...

Il Natale per ricominciare a vivere

Colpisce sempre la potenza dell’annuncio storico del Natale: «All’epoca della centonovantaquattresima Olimpiade; nell’anno 752 dalla fondazione di Roma; nel quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Ottaviano Augusto, mentre su tutta la terra regnava la pace, nella sesta età del mondo, Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, volendo santificare il mondo con la sua piissima venuta, essendo stato concepito per opera dello Spinto Santo, trascorsi nove mesi, nasce in Betlemme di Giuda dalla Vergine Maria, Dio fatto uomo».

Sono parole su cui sostare. Qui mi limito ad aggiungere un trittico di pensieri su cui mi sono soffermato in questi giorni.

Il primo: «Mentre regnava la pace» Dio si è fatto uomo. Per nascere Dio ha bisogno di pace, da quella interiore a quella sociale e politica. C’era pace nel cuore di Maria e nel cuore obbediente di Giuseppe per permettere al Verbo di rivestirsi di carne. La ricerca e la costruzione della pace permettono alla vita di risplendere dopo la notte delle guerre e delle violenze diffuse. Lo testimonia un antico documento, il Cronografo dell’anno 354. Da questa fonte conosciamo che a Roma si inizia a celebrare il Natale il 25 dicembre, “convertendo” la celebrazione pagana del solstizio d’inverno, Natalis Solis Invieti, la nascita del nuovo sole. È dopo la notte più lunga dell’anno che si celebra la nascita della Vita.

Il secondo pensiero lo traggo da un noto scritto di Gregorio di Nissa che ci invita a pensare il Natale come un inizio sempre nuovo: «Vivere è l’infinita pazienza di ricominciare — scrive —. Noi andiamo tutti di inizio in inizio, attraverso inizi sempre nuovi. Perché con Dio, c’è sempre un dopo, Lui non permette che ci arrendiamo, o ci accomodiamo nelle nostre piccole e fragili sicurezze. Offre sempre a tutti una ulteriore possibilità, e non una volta soltanto, ma ogni volta di nuovo. È come se Dio ci dicesse: “vieni, con me vivrai solo inizi”». Sono righe che ci consegnano un’immagine potente in favore della vita che ricomincia. «Fiorito è Cristo ne la carne pura», ha scritto Dante.
È come se camminassimo su un crinale in cui dobbiamo scegliere se sbilanciarci sul lato della morte o della vita.

Il terzo pensiero è della poetessa Wyslawa Szymborska, quando scrive: «Alla nascita di un bambino il mondo non è mai pronto. (...) Non c’è vita che almeno per un attimo non sia immortale. La morte è sempre in ritardo di quell’attimo». Sono parole che ci ricordano la forza del dono e il dovere della responsabilità. Come ogni dono in cui si fa presente il donatore si fa esperienza di un profondo senso di gratitudine e di immeritata generosità. Accogliere invece un bambino da tenere in braccio e da far crescere ci impone un dovere di responsabilità. Parlare di pace, di giustizia, di perdono non è filantropia, ma responsabilità alla vita. E tutto questo vale anche per chi, come i giornalisti costruiscono opinione pubblica.

A tutti buon Natale!

foto: La paternità (R-Guttuso)

Costruire anche nel diluvio. L'opportunità delle buone notizie

Che facevano gli uomini al tempo del diluvio? Mangiavano, bevevano, prendevano moglie e marito. Niente di male, in verità. E noi abbiamo da-vanti agli occhi tante immagini della vita quotidiana improvvisamente sconvolta da un qualche disastro naturale, un terremoto, un’alluvione, una guerra... vite vissute un po’ troppo in superficie, forse perfino nell’inconsapevolezza, nell’incapacità di vedere quello che ci viene incon-tro. E non sarà, talvolta, il nostro sguardo di giornalisti e di commentatori un po’ troppo appiattito sul già detto e il già sentito, sulla ripetizione dell’identico e sulla messa in luce solo di dettagli che non sanno cogliere in profondità, tutti presi dall’immediatezza e poco capaci di scendere in pro-fondità, di guardare più in là?
Che faceva, invece, Noè? Costruiva l’arca. E noi lo vediamo lavorare si-lenziosamente, mettendo insieme legno con legno, edificando la sua gran-de nave spaziosa e accogliente, magari tra gli sberleffi e i motteggi dei suoi vicini: che costruisci a fare un’arca, visto che qui tutto scorre e la vita si ri-pete sempre uguale a se stessa?
In realtà, sbaglieremmo a pensare che Noè lavorasse per l’emergenza. Non è per questo che Gesù lo presenta nel brano del vangelo di Matteo che si proclama quest’anno nella prima domenica d’Avvento. Il lavoro di Noè è paziente e ci parla di un modo del tutto diverso di stare al mondo e, perché no, di fare notizia.

L’Avvento non è un tempo di allarme, di sospensione, di fuga. È il tempo della più profonda consapevolezza, della scoperta che questo mondo non è affatto brutto e cattivo. Potremmo essere noi, sem-mai, a renderlo tale, ma questo è il mondo nel quale Dio ci sta venendo in-contro, in cui ci sono infiniti segnali di luce e di gioia, in cui brillano le stelle e i pianeti danzano intorno ai loro soli! È il mondo di Dio, meravi-glioso e splendente, nel quale siamo inviati per riconoscerne tutte le gem-me e tutti i tesori. E non per ammassarli o rubarli: quando si cammina in al-ta montagna, ci viene consigliato di non cogliere le stelle alpine, ma sem-mai di fotografarle, di lasciarle liberamente crescere sotto il sole di Dio.
Ecco cos’è l’Avvento: un tempo per imparare a riconoscere i tesori, per scoprire che il mondo ne è pieno e che è bello sapere che ci sono. Possia-mo fotografarli e custodirne la certezza nei nostri cellulari, possiamo de-scriverli in nuovi racconti di cronaca e così sorridere e splendere, amare e servire, moltiplicare le tracce di questo splendore che Dio ci ha affidato. Ecco che significa la costruzione dell’arca: lavorare ogni giorno perché tutta questa bellezza si moltiplichi e non tema il diluvio dell’inconsapevolezza e della superficialità.
Costruiamo anche noi arche di buone notizie e di sguardi nuovi, aiutiamo il mondo a non osservarsi più nello specchio anonimo e inconsapevole dell’identico, ma nello sguardo caldo e vitale dell’amore.

l'autore, don Alessandro Andreini, è consulente ecclesiastico dell'Ucsi Toscana

Noi giornalisti come quei pastori di Betlemme...

Tra i tanti luoghi di Terra Santa che vengono evocati in questi giorni che ci separano dal Natale, uno mi sta particolarmente a cuore. Sorge poco lontano dalla Basilica di Betlemme, nella piana ricca di pascoli che risuonava un tempo dei belati delle greggi. È il Campo dei Pastori, il luogo appunto dove gli angeli hanno dato il lieto annuncio della venuta di Gesù agli ultimi tra gli ultimi, i pastori...

Saper narrare oltre la morte.

Ci stiamo abituando a un giornalismo che “informa” ma che non “forma” coscienze libere e capaci di valutare l’accaduto. Le inchieste giornalistiche, considerate nel mondo anglosassone un vero e proprio “contropotere”, sono sempre meno utilizzate; l’eccessivo numero di notizie quotidiane, date una dopo l’altra, fa sì che esse assumano lo stesso peso, come, ad esempio, la notizia della vendita di un giocatore di calcio data subito dopo quella della morte di bambini in guerra; la notizia, una volta battuta dalle agenzie, è riprodotta da giornali, radio e telegiornali allo stesso modo per l’intero arco della giornata. L’ansia dell’arrivare per primi ha aumentato errori, imprecisioni e diminuito il controllo sull’attendibilità delle fonti; l’istantaneità dell’informazione limita la capacità di contestualizzare, ricordare, analizzare e confrontare le notizie tra loro; l’onnipresenza dei media sta abituando a far pensare vero ciò che emoziona, al punto che l’informazione, enfatizzando con il suo linguaggio il pathos (colpire le emozioni dell’ascoltatore), ignora il logos (educare a ragionare).


 

In definitiva, i tempi rapidi, la fretta nel selezionare tra le tante informazioni quotidiane le poche che diventano “notizia”, l’incapacità di trasformare in insegnamento il senso della notizia, ci può condurre a dubitare se l’informazione che ci viene data sia vera. Poniamo comunque che sia vera. Chiediamoci però perché manca di profondità? Perché oltre la morte non si riesce a dare vita?
È vero che chi parla all’intelligenza perde, mentre chi parla alle viscere vince? Sono le scene forti a colpire: un morto o un bambino che soffre. Altrimenti, che audience avremo? Ma immagini come quelle dei ribelli siriani ripresi mentre sparano in testa a dei militari catturati possono essere trasmesse con la leggerezza con cui sono finora circolate?
Alla fine di novembre 2014 ha impressionato il mondo una foto in primo piano, mandata via twitter, di un ragazzino palestinese colpito alla fronte. Non mancano poi cronisti che, in zone di guerra, registrano i rumori dei bombardamenti per farne il paesaggio sonoro dei loro servizi. A farne le spese è l’opinione pubblica.
L’informazione spettacolo narcotizza, incoraggia la passività e l’indifferenza, provoca fenomeni di abbassamento della scala dei valori di una società civile. Il pubblico assorbe le notizie come ipnotizzato da una fiction. Il singolo cittadino è costretto ad accettare la realtà e la fantasia, anzi a volte a credere che la fantasia sia realtà.
Su alcuni temi, come quello della morte violenta che entra nelle case attraverso i media, il giornalista credente non può che dire una parola diversa dalle altre. Vengono alla memoria le grandi catastrofi naturali, i corpi martoriati che commentiamo, i temi dell’eutanasia, insomma tutti quelli legati all’etica della vita. Non si tratta di dare altre notizie, ma di dare anche l’altra metà delle notizie che si fermano quasi solamente alla morte.
Un esempio di buona notizia è stata quella su Carlo Castagna, l’uomo che nella cosiddetta “strage di Erba” del 2006 ha perduto la moglie, la figlia e il nipote, e che ha pubblicamente e ripetutamente perdonato gli assassini dei suoi cari. Comunicare «la vita buona» è una delle sfide del giornalismo per ritrovare la sua più nobile missione, quella di dare voce a chi non l’ha, perché la credibilità si fondi sull’integrità, l’affidabilità e la coerenza del giornalista, che possono essere definite anche come un’alta forma di fedeltà alla democrazia. È “vita buona” la notizia che mette al centro la persona; sotto questo profilo Papa Francesco nell’Evangelii gaudium è lapidario: «Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa» (n. 53).

Parlare della morte per un giornalista sembra scontato. E invece non lo può essere mai. Perché le notizie che toccano la morte raccolgono un altro confine, quello tra la natura e la cultura. Tutti muoiono, però la natura e gli uomini la interpretano e nella natura produciamo cultura per umanizzare la morte stessa. La morte è natura e cultura insieme.
In ogni notizia la morte non esiste allo stato puro, la sperimentiamo solo interpretandola e vivendola con gli occhi puntati sulla vita. La morte è davvero l’ultimo male nelle notizie che diamo? A questa domanda siamo chiamati noi a rispondere. Della morte è stato scritto che è “il supremo atto di fiducia nella bontà del reale, nonostante lo scomparire dell’individualità”.
La religione poi rischia di complicare le cose. Manca un corpo al bilancio dei conti della morte, la somma non torna e l’evento più certo della vita è stato falsificato. È l’amore che vince e distrugge la morte. E se si raccontano i gesti del quotidiano amore questi umiliano la morte, costruiscono pace e giustizia e sconfiggono la sua strategia di distruzione.
In realtà anche nelle notizie che si danno chi è abitato dalla morte sono i malvagi. Quelli sono morti che camminano senza rendersi conto che la morte li hai conquistati e già vinti: chi uccide, gli usurai che distruggono famiglie, quelli che si arricchiscono sugli altri, chi non vuole ridistribuire le ricchezze, chi non si commuove quando i suoi vicini stanno male. Ma quelli che amano hanno già sconfitto la morte, contro loro non può nulla. È la forza della croce.
Il giornalismo aiuta a scolpire nel cuore che ogni ricordo è presenza! Non muore nessuno nel cuore. Lo vediamo dovunque, nelle nostre famiglie come nella storia profonda del mondo: chi ha avuto il cuore più limpido ha indicato la strada, chi ha molto pianto ha permesso di vedere più lontano, chi è stato più misericordioso ha aiutato tutti a ricominciare.
Anche la Chiesa canta durante le lodi mattutine del giorno dedicato alla memoria dei defunti:
“Mi hai formato dalla terra,
mi hai rivestito di carne:
Dio, mio redentore,
fammi risorgere nell’ultimo giorno”.
È questa la speranza che non deve mai mancare in ogni servizio fatto da giornalisti che credono.