Saper narrare oltre la morte.

Ci stiamo abituando a un giornalismo che “informa” ma che non “forma” coscienze libere e capaci di valutare l’accaduto. Le inchieste giornalistiche, considerate nel mondo anglosassone un vero e proprio “contropotere”, sono sempre meno utilizzate; l’eccessivo numero di notizie quotidiane, date una dopo l’altra, fa sì che esse assumano lo stesso peso, come, ad esempio, la notizia della vendita di un giocatore di calcio data subito dopo quella della morte di bambini in guerra; la notizia, una volta battuta dalle agenzie, è riprodotta da giornali, radio e telegiornali allo stesso modo per l’intero arco della giornata. L’ansia dell’arrivare per primi ha aumentato errori, imprecisioni e diminuito il controllo sull’attendibilità delle fonti; l’istantaneità dell’informazione limita la capacità di contestualizzare, ricordare, analizzare e confrontare le notizie tra loro; l’onnipresenza dei media sta abituando a far pensare vero ciò che emoziona, al punto che l’informazione, enfatizzando con il suo linguaggio il pathos (colpire le emozioni dell’ascoltatore), ignora il logos (educare a ragionare).

Ultima modifica: Mer 2 Nov 2016